La Bibbia... e l’asino

Due mesi nella missione diocesana (Tchad)

 

18 dicembre. I volti di N’Djamena

 

Sono arrivato a N’Djamena, ma questa volta non c’erano ad aspettarmi i soliti amici Alfred e Théophile. C’era invece Stefano, il missionario nuovo fiammante di Treviso. Era al suo primo lungo viaggio a N’Djamena. E’ dimagrito e, forse per questo, sta acquistando un volto serenamente ascetico. Il nostro incontro è stato cordialissimo. Abbiamo passato la notte al centro diocesano di Kabalay.

Al mattino seguente mi sveglio prestissimo. Ho l’impressione di trovarmi immerso in una città orante. N’Djamena non è una città integralmente musulmana, ma gli inviti alla preghiera e le salmodie coraniche trasmesse da un numero imprecisato di altoparlanti issati sui minareti delle moschee comunicano al visitatore occasionale l’impressione di trovarsi immerso in una città islamica. La campana della parrocchia, che suona nel quartiere di Kabalay con un ritardo di un’ora rispetto all’appello del muezzin, è appena in grado di ritagliare per sé un piccolo angolo della città. La valutazione di questa condizione di minorità in senso positivo o negativo dipende dal senso che si dà alla presenza del cristianesimo in una città a preponderanza musulmana.

Verso le sette del mattino (o forse prima) ha luogo un altro rito urbano. Una compagnia di militari attraversa con passo marziale le vie della città, accompagnando la marcia con grida ritmate. Ciò non ha alcun senso come esercitazione militare, ma ha un valore simbolico eccezionale: “Noi ci siamo! Fate attenzione!”. Una città orante, una città islamizzata, una città sotto sorveglianza militare: tanto diversa dalle nostre città dove l’assordante rumore è dato dallo sferragliare delle auto e dei tram, dal frastuono dei clacson e dai rintocchi di qualche campana che sembrano ormai anacronistici. Ma l’una e le altre sono veramente umane?

 

19 dicembre

N’Djamena è una città ad alta densità di popolazione, ma se cerchi qualcuno non è difficile trovarlo. Ho chiesto al signore della procura della diocesi se per caso conoscesse Théophile, il quale lavora presso la Caritas, che qui si chiama Secadev. Trovato lui avrei potuto risalire ad Alfred. Non è stato necessario fare nessun’altra ricerca. Lui stesso non solo mi ha parlato di Alfred, ma mi ha fornito i numeri del cellulare dell’uno e dell’altro. Li ho chiamati al telefono: Théophile si trovava a Mongo nel nord del Tchad per la Caritas, Alfred invece ha piantato il lavoro per venire a salutarmi e condividere un caffè con me e con i miei amici. In Italia queste assenze sarebbero considerate trucchi da fannulloni. Qui, no. Più volte negli anni precedenti ho visto Alfred uscire dalla Banca ben oltre l’orario di lavoro. La flessibilità africana consente questi recuperi, che concedono spazio alle relazioni umane.

 

20 dicembre

Stefano voleva arrivare a Fianga prima che cadesse la notte, cosa assolutamente saggia. Ciò non mi ha permesso di fare la consueta visita all’unica libreria cattolica di N’Djamena, cosa che mi impedirà di fare delle letture africane nei prossimi due mesi. Vedremo se potrò rimediare a questo inconveniente.

Il desolato ambiente della capitale non è cambiato molto dalla mia prima visita. Di diverso si vedono solamente le tracce dell’insurrezione che i cosiddetti ribelli hanno provocato poco meno di un anno fa.

Il viaggio è stato piacevole fino a 70 km dalla missione di Fianga. Mi ha stupito il fatto che le risaie realizzate da Taiwan siano scomparse. E’ il segno della prepotenza del governo cinese: “o noi, o loro”. La Cina ormai fa da padrona qui in Africa.

In prossimità di Fianga abbiamo visto da lontano calare il sole sulle colline. Sembra un gioco della natura: un enorme disco rosso che rimbalza rapidamente dalla punta più alta a quella più piccola del sistema collinare, fino a scomparire. Al primo imbrunire siamo finalmente entrati nella missione di Fianga.

 

20 dicembre. Re-incontri...

Sono andato a visitare il centro per gli handicappati. Ho ritrovato Pascal e Fenga. Questi è un po’ invecchiato, ma meno curvo. Continua a vivere nel centro e a fare stuoie. Ho salutato i quattro ospiti, fra cui una ragazzina di undici anni.

Il centro rimane decoroso, anche se i tricicli di ultima generazione mi sembrano fatti peggio e con materiali più scadenti rispetto a quelli costruiti in Camerun.

Subito dopo -con Fabio, Betta e Renato- siamo passati a salutare gli amici musulmani nei quartieri commerciali di Fianga. Li abbiamo trovati tutti ed è stata una festa. Songo ha offerto la Coca Cola. Mi sono informato da loro se l’imam fosse in casa, ma mi è stato detto che è andato in pellegrinaggio alla Mecca. Sembra che questo giovane imam viaggi molto soprattutto alla Mecca; il suo vice sta ancora studiando (il Corano) a Maroua in Camerun. Rispetto al suo superiore, ha il vantaggio di parlare anche in francese. Ho chiesto a Yaya se per caso “il vice” si trovasse in casa, ma mi è stato detto che era partito per Maroua. Non avrei perso l’occasione di andarlo a trovare.

Passando per il mercato non ho visto che una sola donna velata fino agli occhi. Ciò può dipendere dal fatto che le donne musulmane non si muovono granché dalla casa, ma può anche darsi che una certa tendenza radicale dell’Islam non attecchisca molto da queste parti.

 

21 dicembre. Silvain, un giovane volontario francese

Ho celebrato la Messa nella grande e bella chiesa di Fianga. Mi sono trovato completamente a mio agio con la gente. Avevo l’impressione di un ritorno a casa. “Natale con i tuoi...”, avevo detto al momento di lasciare l’Italia. Ed è proprio così.

La Messa è durata quasi due ore. Molto tempo è stato dedicato alle due traduzioni nelle lingue locali e alle letture. Ma, anche tarando il tempo tecnico delle traduzioni, non possiamo dire di aver fatto le cose in fretta e soprattutto di non aver dedicato tutto il tempo necessario all’ascolto della Parola.

Vi assisteva un giovane cooperante francese. Si chiama Silvain ed è ingegnere. A pranzo ci siamo trovati noi due soli e ciò ci ha permesso di parlare a fondo delle sue difficoltà, ma anche della sua fede. L’incontro è stato utile soprattutto per conoscere alcuni problemi che Betta e Renato potrebbero incontrare se si materializzasse il loro progetto di fare un paio d’anni di volontariato a Pala.

Silvain parlava soprattutto di solitudine, di mancanza di relazioni profonde, di un ambiente del centro diocesi quasi indifferente. Secondo lui proprio questi fattori sono stati all’origine dei fallimenti di altri due volontari francesi. Ma il discorso è stato bello soprattutto quando si spostava, e succedeva con frequenza, sul terreno della fede. Silvain è contento di averla riavuta in dono dopo un periodo di indifferenza religiosa da studente. Ma ciò che qui gli manca è il poterla vivere in comunità, condividendola con altri.

Mi rendo conto che il mio soggiorno a Fianga si sta facendo interessante fin da subito e ne sono contento.

 

L’animatore diventato poligamo

Nel pomeriggio ho avuto un lungo colloquio con un ottimo animatore della comunità cristiana che, ahimè, da poco più di un anno è diventato poligamo. E’ poco convincente quando abbozza giustificazioni dicendo: “Siamo tutti uomini.” Tuttavia è molto sincero. Il fatto di percepire un salario notevole rispetto alla media della gente del luogo lo ha forse indotto a considerarsi sufficientemente attrezzato per fare il seduttore. Un rapporto occasionale pare sia stato abilmente sfruttato dalla ragazza, che diceva di esserne rimasta incinta. Per questo, ma non solo per questo io credo, B. se la portò a casa come seconda moglie. Io mi stupivo come mai B. ricordasse con precisione le date e i particolari di questa avventura, che la mia memoria, ora un po’ fragile, non mi permette più di ricordare. Quello che è certo è che le trame di reciproci inganni e di diffidenze tra lui e questa nuova donna, introdotta nella sua casa dove ce n’era già un’altra con sei figli, potrebbero riempire alcune puntate di una telenovela. Ricordo che questa donna rimase sì incinta, ma dopo tre mesi che era entrata in casa di B. In mezzo ci fu una storia di misteriose iniezioni che lei, ad insaputa del marito, si praticava. Di che cosa si fosse trattato, nonostante le ricerche fatte da B. su lei stessa e sulla sua famiglia non gli fu dato di venirne a capo. Ci fu persino qualche “fuitina” della donna nella casa di un precedente compagno. L’inganno con il quale aveva ottenuto di entrare in casa, la misteriosità di queste iniezioni che la ragazza teneva nascoste, le “fuitine” presso un vecchio compagno di vita: tutto questo non era bastato a B. per allontanare la donna dalla casa. Senza che lui lo dicesse chiaramente, io ho dedotto che se n’era innamorato di brutto, quasi come una sfida alla sua virilità in grado di rivivere una seconda giovinezza.

Per qualsiasi ragazza, poi, lui rappresenta un buon partito. 56.000 CFA (franchi) mensili, che da noi possono essere una cifra irrisoria (attorno ai 90 euro), qui rappresentano il doppio della paga di un maestro elementare.

Mentre ascoltavo la storia mi domandavo se B. arrivasse al punto di fare un confronto tra questa sua scelta e il Vangelo, che così spesso e così bene egli proclamava tante domeniche nella chiesa di Fianga. Ma di un possibile conflitto fra le scelte della sua vita e la sua fede neanche l’ombra. Sono stato io a porre la questione durante le conversazioni che abbiamo fatto anche nei giorni successivi. Devo dire però che al momento in cui abbiamo incominciato a parlare si stava ormai consumando l’incrinatura del rapporto tra loro due. Pur essendo nata una bambina dalla loro relazione, ormai da più di un mese egli aveva ricondotto la ragazza alla casa paterna. Il papà è un cristiano battezzato che, almeno all’inizio, si era proposto di risolvere la cosa in maniera amichevole. Ci fu tra i due un accordo verbale, che doveva concludersi con una festa. B. avrebbe donato un toro e offerto bili-bili (birra casalinga) agli invitati. Per arrivare a questo accordo era intervenuto un “mediatore”, secondo i costumi locali. Ma alla fine della festa, al momento di andarsene, quattro giovani della famiglia della ragazza, su ordine del padre, hanno sequestrato la moto di B., renden-

do così manifesta l’insoddisfazione del padre per l’accordo raggiunto.

E qui incomincia la tappa giudiziaria della storia, fatta di reciproche denunce. Il giudice restituisce la moto al proprietario, ma non può non decidere sul risarcimento della donna restituita alla famiglia d’origine e sui doveri del padre nei confronti della bambina che nel frattempo è nata. Da quanto mi ha raccontato durante le nostre lunghe conversazioni, osservo che in quest’altra fase della “querelle” si incominciano a usare due tipi di riferimenti: l’uno ai costumi della tradizione e l’altro ai testi della legge civile del Tchad. Si tratta di riferimenti vincolanti a diverso titolo e che complicano i problemi, come avevo osservato anche in Tunisia. Infatti B., mentre arriva ad accettare con una certa facilità di “sdoganare” la donna che aveva preso come seconda sposa per poco più di un anno, dando al padre una

somma corrispondente a cinque torelli, non riesce a capire perché oltre a questo dovrebbe impegnarsi per almeno altri sette anni a dare alla donna 20.000 CFA (franchi) corrispondenti a un terzo del suo stipendio. Poiché in prima udienza si rifiutava, il giudice ha minacciato che se non avessero trovato un accordo avrebbe tagliato il suo stipendio alla fonte.

Su quest’ultimo punto io ho cercato di portargli delle ragioni. A mio parere è vero che secondo i costumi locali la donna è stata risarcita del danno subito con la somma corrispondente a cinque tori, ma la creatura che era nata restava sempre sua figlia, verso la quale egli continuava ad avere dei doveri. Ho suggerito però di dire al giudice che sottrargli 20.000 franchi dallo stipendio era assolutamente eccessivo; piuttosto si dividesse per otto lo stipendio e l’ottava parte di esso venisse destinata a quest’altra figlia.

Cercavo inoltre di fargli capire che, mentre la legge della tradizione si concentrava sul riconoscimento dei diritti del padre della donna, la legge civile moderna, frutto di un patto fra tutti i cittadini, al di là dei costumi di ogni tribù, si occupava anche dei diritti del bambino. Nonostante questo, egli continuava a pensare che anche un ottavo dello stipendio fosse eccessivo.

 

Veglie nella notte di Natale

Fin dalla mia partenza dall’Italia desideravo passare la notte del Natale all’interno di una comunità di poveri. Invece sono qui, nella missione di Fianga, che questa sera mi appare più un monastero che la grotta di Betlemme. Tuttavia questo non mi scoraggia perché, almeno fisicamente, mi sono portato più vicino ai poveri, così simili ai pastori di Betlemme.

Abbiamo deciso con Stefano di celebrare la veglia di Natale insieme. Immersi nel silenzio e nella semioscurità della chiesa, sentivamo benissimo i canti e le danze delle due comunità cristiane più vicine alla missione. Non mi è stato difficile capire il senso della loro festa e del nostro silenzio monastico quando nel mattutino della notte di Natale ci siamo imbattuti in alcuni versetti di un salmo dove si dice che il popolo fa festa a Dio che lo visita come succede nelle “feste del raccolto” o nelle celebrazioni di vittoria sui nemici. Certo c’è molta emotività, molta confusione, forse anche qualche “calabasse” di troppo. Tuttavia è innegabile che questa festa è dovuta al Natale, che si celebra da queste parti da meno di cinquant’anni.

Il motivo della loro gioia rumorosa era lo stesso che riuniva noi due in una prolungata preghiera silenziosa, appena disturbata dal vicino abbaiare dei cani. Noi forse ci collocavamo alle sorgenti sotterranee della festa e loro si trovavano alla foce, là dove il Natale si salda con la vita della gente e la illumina di speranza e di gioia. Perché allora vedere una

contraddizione tra il nostro silenzio e le loro manifestazioni rumorose e cadenzate di gioia? Alla fine della veglia siamo passati in cucina, ci siamo fatti gli auguri e abbiamo brindato con un limoncello e un torroncino. Buon Natale al mondo!

 

Natale con i tuoi

Alle 6.30 sono andato in cucina per fare un caffè. Nell’attesa ho incominciato a cantare i tradizionali canti di Natale. Quando sono uscito ho trovato Papì che mi aspettava seduto fuori, con camicia scucita, pantaloni sporchi e infradito ai piedi. Portava con sé un recipiente. “Mi ha mandato la mamma a portarvi la bili-bili” (una specie di birra fatta dalle donne per guadagnarsi la spesa quotidiana). “E i pastori dissero: andiamo presto...” Noi sicuramente non siamo Gesù, lo rappresentiamo appena, restandone lontani milioni di anni luce. Ma Papì era il calco perfetto dei pastori che andarono a Betlemme portando quei poveri doni che potevano offrire, doni casalinghi fatti da loro stessi o dalle proprie donne. L’aurora del Natale non poteva cominciare in modo più singolare.

 

Alle 8.30 c’era da aver panico. Sembrava che la grande Messa di Natale dovesse andare deserta: un chierichetto e una ventina di persone. E’ solo dopo le 9-9.30 che la gran massa ha incominciato ad affluire. Evidentemente l’orario della messa non è ben calibrato con le abitudini della gente, almeno in occasione delle due grandi feste dell’anno che hanno anche i propri riti domestici. Lo abbiamo saputo da una conversazione immediatamente successiva alla Messa: la gente a Natale e a Pasqua si sveglia presto, ma quello che noi chiamiamo “il pranzo delle grandi feste” si comincia a consumare fin dal mattino e quando lo si interrompe nella propria casa si parte a far visita a parenti e amici e si continua a mangiare! Quello che si mette sotto i denti non è molto, ma così si può far festa in maniera prolungata e un po’ dappertutto. La chiesa, all’ora stabilita dalla pancia e dalla testa della gente, si è riempita fino all’inverosimile, ed è stata bellissima la festa di colori dovuta alla concentrazione della gente che tutto attorno alla chiesa si salutava e si porgeva gli auguri di Natale. La Messa è durata un’ora e dieci e ciò ha permesso ai ritardatari di arrivare almeno alla benedizione finale. L’affollamento, per certi versi impressionante, che si è creato dopo la celebrazione non è durato molto. Ho notato che, contrariamente alle abitudini, ben presto si è fatto silenzio attorno alla chiesa. Evidentemente la festa continuava in qualche altro luogo, per durare fino a sera.

Noi, cioè Stefano e io, eravamo stati invitati per il pranzo di Natale nella casa di un catechista “storico”, Vincent Tosse. Siamo arrivati per primi nella sua proprietà, quando ancora non c’era un’anima viva, e ci siamo accomodati sotto una veranda coperta di canne fresche di miglio e sorretta da pali piuttosto diseguali. Al suo arrivo le donne hanno cominciato a preparare il riso. La lunga attesa, durata due ore e mezza, ci ha permesso di assistere a uno spaccato di vita quotidiana.

La gente si muove in occasione della festa. Tutti si scambiano visite: giovani, anziani, uomini, donne. Vengono stese delle stuoie sotto l’ombra di un albero o semplicemente al sole, si offre e si beve bili-bili. Si continua così durante tutta la giornata e, a quanto mi dicono, anche nel giorno successivo. Torno a pensare che in pochi decenni i tempi e i luoghi nei quali la gente vive la propria esistenza stanno ricevendo una caratterizzazione legata anche al calendario cristiano. Niente di specificatamente evangelico, perché pare trattarsi di una semplice introduzione di nuovi elementi di identità. Ma credo che sia difficile ora per un cristiano di queste parti soffrire complessi d’inferiorità rispetto alla visibilità della comunità musulmana o della comunità che in maniera bruttissima tradizionalmente viene chiamata “pagana”. L’identità affermata può facilitare l’annuncio del Vangelo, ma non è ancora Vangelo. Se poi essa sviluppasse sentimenti di superiorità o di rivalità, potrebbe addirittura entrare in collisione con il Vangelo.

Seduto su un gran seggiolone, sotto l’ombra piacevole della rustica pensilina, mi facevo raccontare da Vincent episodi della sua vita passata. Stefano ascoltava e faceva attenzione alle persone e a tutto ciò che accadeva attorno a noi. Mi ha parlato di un suo progetto che io trovo formidabile. Per imparare bene il toupouri vorrebbe venire a vivere per un mese di seguito nell’area familiare di Vincent. Dalle prime impressioni che sto raccogliendo, io credo che Stefano abbia molta voglia di incarnazione. Durante la veglia ci eravamo detti che il Natale, di sua natura, è festa della missione, perché di essa definisce le ragioni, le dinamiche e il metodo. Sarebbe splendido se Stefano volesse tentare strade nuove.

Al pomeriggio con Betta, Renato e Stefano sono andato a visitare le prigioni, come avevamo promesso. Da parte mia voleva essere una semplice visita di augurio. L’arrivo del direttore ha permesso a Stefano di pensare a uno sviluppo delle relazioni con i detenuti. Nei miei soggiorni precedenti era Marie Albert, l’anziana suora senegalese, che a suo modo si occupava di loro anche personalmente. Credo che una maggiore attenzione a questa realtà per renderla più umana sia un compito importante della comunità cristiana. Sto pensando che le visite settimanali che facevo ai malati di AIDS potrebbero essere sostituite da visite alle prigioni. Con mia grande sorpresa, infatti, il “reparto infettivi” è stato chiuso per mancanza di medicine. Non arrivano da sei mesi, pur essendo erogate gratuitamente da organismi di carattere mondiale. Esse spariscono prima di arrivare e, forse, vanno a finire in qualche mercato.

 

Don Stefano in missione - tra la genteSanto Stefano

Festa di onomastico di Stefano. Stamattina alle 6.30 per strada non c’era ancora nessuno. Questa silenziosa immobilità è un postumo della festa ed è un altro indizio che mi conferma quanto essa sia entrata nei costumi della gente. Continuo a pensare che ciò sia molto sorprendente.

Trovo che la sede della missione sia troppo vasta e bella perché resti solo “una stazione missionaria”. Allora mi sono abbandonato al sogno di immaginarla nel futuro imprevedibile di Dio come un monastero che raccolga dei monaci o, meglio ancora, delle monache tchadiane o comunque africane, con compiti pastorali sullo stile dei monasteri che hanno evangelizzato l’Europa, incidendo in profondità anche sulla civiltà locale e su usi e costumi che sono così lontani, a volte, dalla dignità dell’uomo e della donna.

 

Ho passato tutta la mattinata con Pascal a far visita ad alcuni handicappati che nei miei precedenti soggiorni avevo cercato di aiutare in diverse maniere. Il bambino di cinque anni coperto di polvere e che camminava a quattro zampe, “senza più figura di uomo”, è stato operato ai piedi ed è stato fornito di protesi che lui stesso ora è in grado di applicarsi. Per alzarsi si appoggia sulle grucce e poi si sposta con quelle. Frequenta la scuola con buon profitto. Gli ho detto che ora deve confidare nelle sue mani e nella sua testa: “con i mezzi che oggi ci vengono offerti dalla tecnologia servono più queste che i piedi.”

Ho ritrovato anche la ragazza a cui cinque anni fa è stata fatta la stessa operazione. L’ho trovata seduta sotto l’ombra dell’albero di casa mentre faceva la... parrucchiera! Una professione interessante per chi soffre di handicap motori.

Sono passato davanti alla chiesa luterana del vecchio Paul, il pastore. Mi è stato detto che la moglie è deceduta qualche tempo fa. Mi riprometto di fargli visita. Mi sono fermato anche da David, che mi ha tracciato un bilancio positivo dei dieci anni di Kolpélé: un’esperienza per i ragazzi “di strada”. Ho sentito però che si andrebbe verso la sua chiusura: “Le famiglie pensano di aver consegnato i propri figli ai preti. A quel punto le famiglie si sentono esonerate da ogni responsabilità.” Questa potrebbe essere la ragione della sua chiusura. Qualche cosa di simile succede con i marabouts musulmani in altri paesi dell’Africa; a loro viene consegnato in tenera età uno dei propri figli, a cui essi stessi dovranno provvedere.

Nel pomeriggio ho partecipato con Stefano alle due feste che il coro maggiore e il coro minore dei toupouri avevano organizzato in occasione del Natale in due aree familiari diverse. Il primo coro è formato da giovani e il secondo da adolescenti. Penso che queste feste abbiano la stessa valenza sociale delle nostre discoteche o di altri luoghi di incontro dei giovani. Facendo dei confronti, mi rendo conto che la “mixité” africana sarebbe inimmaginabile nell’Africa del Maghreb.

 

27 dicembre

Festa di S. Giovanni Evangelista. Anniversario dell’assassinio-martirio dei quattro padri bianchi di Tizi Auzou (1994).

Arriva il presidente!

Oggi è arrivato a Fianga il presidente del Tchad . La notizia non è stata data alla popolazione con molto anticipo: appena il giorno prima. Gli spostamenti del capo dello Stato sono top secret. La sera precedente all’arrivo erano state tolte tutte le baracchette del mercato, dove le donne vendono i poveri minimi prodotti che servono per la “boulle” quotidiana. Dai vicoli adiacenti alla strada principale erano stati rimossi tutti i rifiuti, accendendo dei grandi roghi.

Stamattina volevamo andare con Betta e Renato a visitare alcuni musulmani, ma quando siamo arrivati in città abbiamo trovato le case e i negozi chiusi. Non c’è rimasto altro da fare che cercare un posto dove sederci, sotto l’ombra di un grande albero, ad osservare quello che sarebbe accaduto. Le camionette militari sfrecciavano sulla strada intasata di gente. La velocità arrogante, la mitragliatrice appostata con tutta evidenza sulla prima delle camionette militari, i tre o quattro soldati sdraiati sopra la cabina con i fucili in mano e la testa fasciata dalla kephiah, il polverone suscitato dal loro passaggio: tutto diventava segno dell’imponenza incontrastata del potere. I proprietari di una moto, che stanno diventando sempre più numerosi, approfittavano per fare sfoggio di sé correndo su e giù tra le due ali di folla. Una passerella inaspettata per esibire il nuovo status-symbol tirato a lucido.

Qualche donna europeizzata -portando scarpe dai tacchi altissimi, borsette, giacca, pantaloni e artificialmente sommersa da un’infinità di prodotti di bellezza- passava con apparente indifferenza di fronte a uomini e giovani seduti sulla polvere, ma non insensibili al fascino femminile.

Non mancava neppure il lato folkloristico e un po’ comico rappresentato dalle autorità tradizionali. Il capo del “cantòn” di Fianga era uscito di casa accompagnato dalla sua improbabile corte, costituita forse da figli e nipoti, uno dei quali reggeva un ombrellone sul suo capo. Sull’ombrellone spiccava la pubblicità di una birra. Anche qui i baldacchini sembrano appartenere ormai all’archeologia del potere.

Lo chef di cantòn di Tichèm, invece, è arrivato cavalcando l’onda della modernità. Issato sullo chassis di una camionetta ammaccata, reggendosi al parapetto e con due guardie del corpo al seguito, passava tra la folla divertita gridando frasi che io non capivo. Il tutto era di una comicità irresistibile. Ci pensava la camionetta munita di mitragliatrice a ricostruire il clima di timore reverenziale dovuto al potere. L’organizzazione febbrile e improvvisata della festa aveva forse fatto dimenticare che l’Ospite, dopo un viaggio sulle innumerevoli buche delle strade, avrebbe desiderato riposare. In tutta fretta un Toyota, lanciato alla solita velocità arrogante, è corso perciò a cercare poltrone e divani sgargianti usciti chissà da dove, ma che suscitavano l’estasiata ammirazione della gente che, seduta per terra sulla polvere, osservava l’avvenimento. Per essa l’arrivo della persona del presidente non ha costituito qualcosa di particolarmente emozionante, salvo la sontuosa cornice.

Ho chiesto ad Isac, che ha assistito allo spettacolo sino alla fine: “Allora, hai visto il presidente?”. “No, perché non si sapeva qual era la sua vettura e di vetture ce n’erano un centinaio.” Per il potere bastava far aleggiare il fantasma di se stesso. La leggenda ha poi diffuso la voce che fosse lo stesso presidente a guidare la sua auto, che “è la più costosa del

mondo”.

 

Nel pomeriggio ho parlato con Narcisse. Era entrato in seminario e vi era rimasto per tre anni. Alla fine del corso di filosofia è stato invitato a uscire. La stessa decisione è stata presa per un altro giovane di Fianga, a cui mancava solo qualche mese per essere ordinato prete. E’ il segno di una svolta nella chiesa del Tchad?

 

30 dicembre

Scrivo alle cinque del mattino, mentre a distanza piuttosto ravvicinata sento gli ippopotami muggire i loro spaventosi canti d’amore. Già da mezz’ora il primo fischiettare ancora incerto di qualche uccello dava il segnale del risveglio della vita. A poco a poco, nell’oscurità che permette di vedere ancora tutte le stelle, si ricompone la sinfonia d’amore e di lavoro di tutto il creato.

 

Amici musulmani

Ieri ho fatto visita ai miei amici musulmani. Accompagnato da Songo, volevo cominciare dall’imàm, ma ci è stato detto che era partito in brousse per visitare la mamma e non sarebbe ritornato che il 2 gennaio. Già assente per lungo tempo a causa del pellegrinaggio alla Mecca, ora è assente per motivi familiari. Sto rendendomi conto personalmente della verità dell’affermazione di Giulio: “Non lo si trova quasi mai.” Conversando con Songo sono venuto a sapere che ha tre mogli, ma non ha figli. Ho notato sul suo volto, mentre me ne parlava, una specie di disappunto o di un’ombra di disprezzo.

Ho incontrato, invece, il vecchio Mamadou: “Dio non può amare la violenza”, mi diceva. Secondo lui la prova inconfutabile che Dio non è violento è il fatto che Egli ha voluto creare il mondo e l’umanità. La creazione diventa la prova della misericordia e della compassione di Dio. Le conversazioni con Mamadou sono sempre interessanti e popolate dai ricordi dei preti e dei vescovi che sono passati da queste parti. Poiché colui che mi parla è un fervente musulmano, molti cristiani europei ascoltandolo dovrebbero ricredersi di tanti pregiudizi.

Ho avuto la fortuna di re-incontrare il professor Abacar, che ora è preside della scuola di Yuei in brousse. Il plesso scolastico conta 700 alunni. Abacar sembra essere attualmente un uomo di carriera. Ricorda con piacere la conferenza che abbiamo fatto insieme sul dialogo tra cristiani e musulmani. La sua scuola si è insediata sulle “mezze rovine” della sede di una fondazione europea che faceva ricerche sul cotone e che aveva precipitosamente abbandonato il paese nel 1968. Egli teme che questa società europea torni ad avanzare i suoi diritti. In questo caso dalle mezze rovine la scuola sarebbe costretta a passare alle pareti di stuoie sotto tettoie di canne di miglio.

Yaya, invece, vuole iscriversi al corso per diventare poliziotto. Io gli ho detto che ho l’impressione che il Tchad abbia più bisogno di insegnanti, infermieri, medici e quant’altro, piuttosto che di poliziotti. Gli altri amici si dedicano a piccoli commerci, ma mi pare che gli affari siano magri se un giovane come Yaya cerca di evadere da questo ambiente. Forse sono troppi a doversi spartire la magra torta, polverizzata in una miriade di attività micro-commerciali.

Stefano è tornato piuttosto soddisfatto dall’incontro con gli animatori dei gruppi giovanili di Séré. Presenza: 29 su 40. Sono arrivati a piedi anche da molto lontano. Ho l’impressione che Stefano abbia messo tra le sua scelte prioritarie la questione giovani. Non gli mancherà certo il lavoro.

Songo ha il diabete...: si misura la glicemia una volta al mese. Sulla base di questa rilevazione del tutto occasionale, il medico gli ha prescritto due compresse al giorno. Nessuno gli ha parlato di dieta o di attività sportive. Eppure queste cose non costerebbero niente. Anche la medicina “scientifica” sembra conservare aspetti dilettantistici e stregoneschi.

Il presidente dell’associazione sportiva di football ha consegnato a Stefano l’invito ad assistere all’ultima partita di campionato dell’anno 2008. A dire il vero, dentro il biglietto d’invito c’era anche la richiesta di una collaborazione finanziaria.

Ieri in una conversazione mi è capitato per la seconda volta di ricordare Joseph, il cuoco di Séré deceduto due anni fa, affezionatissimo a Silvano. L’altra volta mi è venuto spontaneo chiamarlo “un mistico” popolare. Questa volta, con maggiore approssimazione, l’ho chiamato “il santo bevitore”.

 

31 dicembre, ultimo giorno dell’anno 2008.

Laici in missione

Ieri e lunedì Betta e Renato, accompagnati da Giulio e Stefano, sono andati a Pala per incontrare il vescovo e conoscere le proposte che egli doveva fare in vista di un loro possibile inserimento a servizio di questa gente. La mia prima impressione è che non siano tornati particolarmente entusiasti. Un servizio da meccanico per i veicoli della diocesi non è un progetto molto motivante. Un posto da contabile per Betta è un’ipotesi non ancora ben strutturata. La delusione mi sembrava evidente. L’inserimento dei laici sembra essere concepito soprattutto come un servizio tecnico-professionale all’istituzione chiesa e alle sue strutture, che sicuramente prestano un servizio alla gente. Ma ciò non può incrociare le aspirazioni profonde di giovani che insieme con la chiesa intendono condividere il cammino di sviluppo e di liberazione della gente.

Temo che nella chiesa di oggi si torni a pensare che ai laici competano ruoli di servizio castale, ma questa non è l’immagine del laico tracciata dal Concilio; né essi possono essere attratti da questa proposta.

Nel pomeriggio mi è stato chiesto da Betta un aiuto per trovare altre motivazioni che li facciano decidere a venire in Africa. Mi pare, infatti, che essi sentano la bellezza e anche la necessità di un impegno con gli africani. Il soggiorno a Fianga ha suscitato in loro interesse e gioia. Io mi sono limitato a dire che, pur non essendo entusiasta delle proposte fatte, o essi le accettano aprendo così la porta per eventuali altri inserimenti di tipo diverso, oppure ho l’impressione che la prospettiva di un impegno di laici in Africa resti chiusa per sempre, almeno per quanto riguarda Treviso. A mio parere dovrebbero accettare il sacrificio di questo inserimento di basso profilo per lavorare attivamente alla promozione di altri progetti. Mi risulta anche piuttosto evidente che l’équipe dei preti su questo punto non è concorde.

 

... gli storpi camminano

Ho passato tutta la mattinata con Betta e Renato, visitando alcuni handicappati e due famiglie di Bissué. Fenga, l’handicappato che ormai da sei anni ha un posto fisso presso il centro, continua a lavorare facendo stuoie. Ne aveva immagazzinato nove e le ho comprate tutte. Era piuttosto reticente a definire il prezzo, ma lo ho tolto d’imbarazzo e con 20.000 franchi ho comprato tutto (30 euro!). Un’enormità per lui, un paio di sandali per noi. A ragione Fenga mi chiama da sempre “mon ami”!

Per strada sono stato fermato da due sordomuti che mi hanno chiesto qualche soldo, ma non ho dato niente. Un giovane handicappato, custode di una piccola macina di mulino, mi è venuto invece incontro con la sua carrozzella offrendomi quattro caramelle. Mi ha detto che frequenta la scuola superiore. Abbiamo trovato ad attenderci nella casa di Pascal una ragazza di Tichém, il cui papà dice di non aver avuto ancora i mezzi né per comprarle le grucce né tanto meno per l’operazione. Ho chiesto di parlare in un’altra occasione con il papà: una collaborazione la deve pur dare! Per il momento mi sono limitato ad acquistare una gruccia (meno di cinque euro) per la ragazza.

L’incontro che più mi ha riempito di entusiasmo è avvenuto nella casa di un ragazzino di otto anni, figlio di un infermiere. Abita non lontano dalla missione e durante la mia ultima visita l’avevo aiutato per fare l’operazione alle gambe e ai piedi. Ora non solo cammina, ma anche non ha più bisogno delle grucce. Va a scuola normalmente al Kolyan. Mi sembrava che la pagina del Vangelo si aprisse là dove è scritto: “Fa camminare gli storpi...” Gesù indica questo avvenimento come segno del Regno.

 

1° gennaio 2009, Capodanno

Il mucchio di terra accanto

Alle sei del mattino alcuni ragazzini si erano affacciati al recinto della missione per augurare il Buon Anno. E’ abitudine che gli adulti ricambino gli auguri offrendo loro qualcosa. Colto di sorpresa, ho risposto in maniera educata, ma indifferente. Essi però non se n’andavano. Allora mi sono ricordato che avevo nell’armadio delle caramelle, che mi hanno permesso di assolvere al mio compito di adulto. Purtroppo durante la giornata non ho provveduto a riempirmene le tasche. Forse è stata semplice scortesia.

A una bambina appena nata è stato posto un nome che in toupouri significa approssimativamente “recinto delle mucche”. La mia reazione di disgusto è stata avvertita immediatamente. Allora qualcuno mi ha spiegato che quando nasce una bambina il papà pensa spesso alla quantità delle vacche e torelli che avrà in cambio della figlia quando la darà in sposa.

Oggi, oltre ad essere la festa della Madre di Dio, è anche quella dell’imposizione del nome a Gesù. A noi sembra un puro dato anagrafico. In realtà qui in Africa è molto di più di questo e, di questo avvenimento, forse manca una valorizzazione che renda più africano l’evangelo.

E’ passata una lettiga portata a spalle. Era accompagnata da una quindicina di persone e da un ragazzo che portava una stuoia. Avvolto in un lenzuolo giaceva il cadavere di una donna. Aveva venticinque anni e cinque figli. Le cause della morte mi sono state descritte così: “Soffriva di gastrite e, verso la fine, di un forte dolore ai reni.” Diagnosi del tutto improbabile. C’è da chiedersi se le solite pastiglie non le abbiano provocato un blocco renale. Questa sera i suoi cinque bambini cominceranno a capire che la mamma è quel mucchio di terra accanto alla loro capanna.

 

2 gennaio 2009

Ieri, festa di Capodanno, ho reso visita a tre famiglie. Bailimòn mi aveva invitato, dopo la messa, ad andare a casa sua a bere una calabasse di bili-bili. Ho accettato subito l’invito e mi sono trovato, seduto su una seggiola “maestosa” all’ombra di un “nimier”, a parlare con una decina di uomini che mi ponevano una quantità di domande, soprattutto sul modo di vivere degli europei, sull’alcolismo e sulla droga.

Mentre noi parlavamo è entrata nel cortile di casa almeno una ventina di donne e bambini. La festa di Capodanno si svolge così: bambini che porgono gli auguri aspettando qualche cosa in contraccambio e continue visite familiari. Da Jérome, l’handicappato, non c’era invece nessuno e così abbiamo potuto fare molti discorsi. Da sei mesi si è separato dalla ragazza, che a suo dire si era manifestata totalmente irresponsabile e un po’ sanguisuga. Il papà di lei, in cambio del suo ritorno alla casa paterna, si accontenta di una capra. Il confronto con il caso che ho conosciuto qualche giorno fa è improponibile. Per recuperare la bambina e portarla a casa sua, Jérome dovrà invece offrire una vacca.

In questi ultimi tempi, nel giorno del mercato e cioè il martedì, Jérome è visitato da una donna di ventisette anni, che ha un bambino da un precedente matrimonio. Dice che viene considerata da tutti una donna responsabile e dedita alla casa e al marito. Il matrimonio si è sciolto perché il marito, emigrato in Camerun, è ritornato completamente folle. La donna ha tenuto duro per altri due anni, ma poi non ce l’ha più fatta. Per quanto riguarda il lavoro, Jérome vorrebbe imparare a fare il sarte perché la minuscola botteghina è troppo soggetta a furti e ad ammanchi. Si lamenta anche perché le riunioni dell’Associazione degli handicappati non sono molto frequentate.

Alla sera con Fabio, Stefano, Betta e Renato siamo andati a cenare da Philippe e Brigitte e la loro numerosa famiglia. Anche alla sera di Capodanno si scambiano fitte visite tra famiglie.

Da quanto tempo il Capodanno si sta celebrando a Fianga e in maniera così prolungata? E’ una curiosità interessante dal momento che Giulio ha detto che a Tichém non ha osservato nessuna particolare animazione in questi giorni. Ciò vorrebbe dire che certe ricorrenze non hanno origine autoctone e che le città e le cittadine sono le prime a introdurne i riti, che poi verosimilmente si estenderanno a macchia d’olio anche nelle campagne.

 

3 gennaio 2009 Il sesso... sparisce!

I racconti di alcuni avvenimenti raccapriccianti continuano. E’ accaduto ieri a otto km da Séré che la folla abbia ucciso a bastonate tre uomini. Erano sospettati di essere complici di un “mistico” che, con il pretesto di salutare, con una semplice stretta di mano annullava gli organi sessuali specialmente dei maschi. Secondo i sedicenti testimoni oculari gli organi si raffreddavano e sparivano. Se così fosse, la cosa sarebbe raccapricciante. Ma questo stregone tranciasessi esiste davvero o è frutto di qualche fantasia maschile frustrata? E se veramente esistesse, perché non uccidere lui, anziché uccidere i tre che, a quanto pare, erano solamente indiziati non di partecipare alle sue operazioni, ma di essergli amici? La verità è che per il momento tre sono morti, uccisi nel modo più violento, davanti a una folla di uomini e donne di tutte le età. Un fatto del genere potrebbe provocare delle reazioni a catena imprevedibili.

Mi si racconta anche che un anno fa dalle parti di Gounou Gaya cinque ragazzini che conducevano al pascolo pecore e capre sono stati catturati in ostaggio. Due di essi sono stati ritrovati sgozzati, gli altri erano ancora vivi.

Il Vangelo abita ormai da qualche decennio da queste parti; è in grado di creare segmenti di nuova identità, ma è ancora molto lontano dall’impregnare la vita della gente. Da questo luogo del mondo pare di capire meglio l’assoluta contraddittorietà tra Vangelo e violenza.

 

Ieri Silvain, il papà e la sorella sono ritornati a Pala. Il papà è un architetto di Lyon, un uomo di eccezionale semplicità e cultura. E’ tra i fondatori di un movimento che si chiama “il Nuovo Cammino”. Ha una fede profonda ed è riuscito a trasmetterla ai figli. Si è appassionato all’edificio della chiesa di Fianga, che egli considera straordinario. E’ lui che ha definito la scorta presidenziale come una scorta di guerrieri, non semplicemente di militari. La loro arroganza è costata la vita a due persone sulla strada per Pala.

Stamattina è arrivato alla missione Moise, un handicappato motorio grave, cosa che non gli ha impedito di avere per il momento tre figli. Ci sta tutto sul portabagagli di una bicicletta da uomo. E’ partito da un villaggio di Séré, a quindici km di strada sterrata con banchi di sabbia, rannicchiato sul portabagagli della bicicletta di un giovane ventenne, studente di scuola superiore già sposato, padre di un bambino. Sono arrivati quando stavamo terminando la colazione e ho provato un momento di agitazione intensa, quasi di ribellione. Non contro Dio, ma contro me stesso, contro le mie spese inutili, contro chi con pochissimo denaro potrebbe rendere meno disumana una vita del genere. E’ pur vero che Gesù non ha soccorso tutti i malati del suo tempo, ma è vero che ha guarito tutti quelli che ha incontrato per strada. Quando gli ho dato la mano tremava dal freddo e tremava ancora più vistosamente quando dal suo esperto accompagnatore è stato deposto sul nudo pavimento di cemento. Con Betta abbiamo preparato per tutti e due una scodella di farina bollita con acqua, latte e zucchero. Per fortuna ha cessato di tremare. Che fare?

Io credo che la prima cosa è permettere che lo sconvolgimento entri ben dentro di me e poi, dopo che il cuore ha parlato, lasciare che parli la ragione e soprattutto che parli il Vangelo. Per questo, durante la mia meditazione della giornata, mi sono sentito molto più disturbato dal giovane accompagnatore che dalla vista dell’handicappato. Fare almeno trenta km sulla sabbia con questo fardello, partire con la frescura alle sei del mattino senza neanche aver fatto colazione... Sarei capace io di fare un solo decimo di tutto questo? Mi è stato detto che quel giovane lo fa abbastanza di frequente e ciò aumenta il mio senso di vergogna. Non mi pare che egli sia un cristiano; almeno dal nome non lo è. Tuttavia mi ha dato una lezione cristallina dell’immediatezza, della spontaneità e della radicalità del Vangelo. Oggi ho ricevuto, per strani percorsi, la viva parola di Gesù.

 

Don Stefano in missione - assemblea dei giovaniEpifania del Signore. Gli aiuti... aiutano!

Nel pomeriggio della vigilia dell’Epifania sono andato a Séré, dove sarei rimasto fino al pomeriggio seguente per la celebrazione dell’Eucarestia della festa. Avevo tante cose da vedere con Anne Marie, una suora francese che ultimamente -lavorando con tubercolotici, ammalati di AIDS e bambini denutriti- ha preso lei stessa la tubercolosi, ma non, per fortuna, l’AIDS. E’ una donna eccezionale, appassionata della sua esperienza di vita nella profonda brousse di Séré. Per la cura della TBC, dell’AIDS e della denutrizione ha avviato delle attività che stanno dando risultati formidabili. Era amica e “sorella” di Silvano. Tre anni fa mi ero impegnato a versare 2500 euro annuali per la cura dei malati di AIDS e 1000 euro per i bambini denutriti. Quando sono andato a visitarla si è sentita in obbligo di farmi il resoconto delle spese per le attività svolte in questi anni. Non occorreva che lo facesse e io approfittavo ogni tanto per portare il discorso su altri temi. Volevo rendermi conto dell’efficacia delle azioni svolte. “Se Lei vedesse i miei malati di AIDS non li riconoscerebbe più. Lei ha ancora le immagini degli uomini e delle donne distrutti dalla malattia di alcuni anni fa. Ora nessuno si accorge che uno è affetto da questa malattia se segue il trattamento.”

Trovavo bello il risultato e ancora più deliziosa l’espressione “i miei malati di AIDS”. Qualcuno sta così bene che, purtroppo, vorrebbe riprendere a fare figli. La suora lo invita ad aspettare, dicendo che forse nel futuro troveranno il mezzo che permetterà ai malati di AIDS di avere relazioni procreative senza contagiare la partner. Per il momento qui, da queste parti, è una piccola bugia, ma la si può perdonare.

Mi parlava dei bambini denutriti per i quali ha avviato un programma poco costoso e molto efficace, sfruttando soprattutto risorse locali. Ma, quasi certamente e con la morte nel cuore, questa suora fra qualche mese dovrà lasciare tutto. La congregazione ha deciso di chiudere la comunità. Per questo i suoi discorsi si orientano soprattutto al futuro, per garantire la sopravvivenza dei programmi avviati.

Prospère, un infermiere tchadiano di sua piena fiducia, fa molte delle cose che ha imparato da lei, anche se non tutte. Ma questo povero Prospère ha a suo carico, assieme ad altri due infermieri, un dispensario che è frequentato da una media di mille malati al mese! Come farà ad occuparsi dei programmi di A.Marie se non avrà almeno un altro infermiere che faccia il suo lavoro? Lei stessa, in parte anche con i soldi che le ho mandato, sostiene la prosecuzione degli studi di infermieristica di un giovane giudicato da lei ottimo. Ma poi, per occuparlo, si dovranno trovare i mezzi per garantirgli un salario.

La lunga conversazione di due ore, risultata alla fine una vera preparazione alla messa dell’Epifania, mi svelava il legame fra la presenza del Vangelo tra il popolo toupouri e l’umanizzazione di alcuni aspetti della sua vita. Il passaggio da forme di vita meno umane a forme di vita più umane: questo dovrebbe essere il segno concreto e visibile del cammino della Parola di Gesù tra il popolo toupouri.

Luca scriveva il suo Vangelo e gli Atti come il grande racconto del percorso della Parola da Gerusalemme a Roma. Qui non si è ancora trovato un evangelista che racconti questi altri cammini del Vangelo. Suor A.Marie il suo missionario lo ha trovato. Si tratta di un malato di AIDS che ha avuto il coraggio di dichiararsi tale. La sua situazione personale lo ha reso esperto di queste cose ed è riuscito a convincere ad andare dalla suora per curarsi altre cinque donne malate. Non è battezzato, ma ogni domenica è in chiesa con la numerosa comunità cristiana.

 

Ho celebrato l’Eucarestia dell’Epifania fra canti e danze. La riflessione sul Vangelo di Matteo è stata lunga e dialogata. L’abbiamo interrotta tre volte per fare quei gesti che sono indicati nel Vangelo. Alla fine uno dei chierichetti è svenuto. Si trattava di un attacco di paludismo pernicioso. Se non ci fosse stato Prospère con le sue flebo, quel ragazzo non sa-

rebbe scampato alla morte. E anche questo è Vangelo in atto.

 

Il catechista che diventa poligamo

Arrivato a Séré non ho perso tempo per parlare con Laurent, catechista e guida di comunità che mi aveva impressionato nelle visite precedenti. Da un paio d’anni è diventato poligamo. Alla morte del fratello, “il santo bevitore”, ha seguito la tradizione e ha preso la moglie del defunto come sua seconda moglie. Ne abbiamo parlato con una certa libertà. Contrariamente al precedente caso di poligamia, Laurent avverte l’incompatibilità di questa sua situazione con la Parola di Gesù, che lui non vuole assolutamente abbandonare. Ha lasciato così i precedenti incarichi, salvo quello di animatore dei canti in chiesa. Mi ha detto che si rende conto della sua incoerenza e pare che sia arrivato alla decisione di occuparsi sì del figlio nato nel frattempo, ma comportandosi da “fratello” e non più da marito con la madre di suo figlio. Io gli ho detto che è necessario anche un altro passaggio. Dal momento che la sua situazione è conosciuta da tutti, occorre dare testimonianza alla comunità nei tempi e nei modi concordati con il padre. Suor A. Marie, infatti, mi parlava di un ritorno alla poligamia piuttosto diffuso tra i responsabili delle varie attività legate alla comunità cristiana.

 

Le difficoltà della Parola

La violenza, quella più brutale esercitata con il bastone, ma anche quella subita per tradizione da donne e bambini, la corruzione nella gestione dei piccoli patrimoni comunitari, la poligamia, la stregoneria... sono altrettanti segni della difficoltà che la Parola ha nell’impregnare di sé la cultura di un popolo senza togliergli la sua identità.

 

Venuta la sera, con Stefano e Dadi abbiamo parlato piuttosto a lungo della storia della sparizione del sesso maschile al semplice tocco sulle spalle di una persona dotata di poteri magici. Era evidente in Dadi la voglia di dirci quello che noi aspettavamo che lui ci dicesse, e quindi poco abbiamo saputo di veramente importante. Quello che per noi occidentali è difficile da capire è che ogni fatto che accade non venga spiegato facendo ricorso alle cause naturali tutte interne al mondo fisico in cui viviamo, ma a partire da un mondo invisibile ma reale che determina effetti e conseguenze che noi subiamo. E’ difficile contenere il principio di causalità all’interno delle cause naturali. Questa visione del mondo può creare grosse difficoltà in tanti settori della vita, ma soprattutto in quello della salute e della malattia. Come farà la Parola a restituire dignità e consistenza a questo mondo visibile in cui esistiamo, senza far perdere il riferimento al mondo invisibile?

Occorrerà capire tutta la profondità dell’affermazione del Vangelo di Giovanni: “La Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.”

 

5 gennaio. Non solo meccanici

Betta e Renato sono tornati in Italia. Erano venuti per vedere se c’erano le condizioni per svolgere un servizio di volontariato per almeno due anni. Non hanno potuto nascondere né l’entusiasmo che hanno provato dal loro impatto con la realtà di Fianga e Séré, né la delusione nei confronti delle proposte che sono state fatte a Pala. Personalmente ritengo che il dirottamento a Pala sia conseguenza delle perplessità molto forti maturate nei nostri preti a causa delle difficoltà che si sono create in una precedente esperienza. Non credo, però, che questo sia sufficiente per spiegare tutto.

Mi pare che al fondo di queste perplessità, piuttosto diffuse in Africa, ci sia una certa maniera di vedere la missione e la chiesa, e dentro di esse il posto che i laici devono occupare. Per me l’esercizio serio di una professione è sicuramente fondamentale nella testimonianza di un laico. E tuttavia questo resta semplicemente uno dei punti di inserimento, uno dei luoghi attraverso i quali il laico esercita il suo ruolo, il suo compito nella chiesa. Una chiesa fatta da preti rischia di essere una chiesa che fa catechesi e liturgia, magari fatte bene o addirittura in maniera eccellente. Ma il laico è lì per aprire la chiesa al mondo e metterla al suo servizio. Certo è molto utile che egli sappia aggiustare bene macchine e moto perché i missionari e le missionarie della Parola abbiano i mezzi efficaci per svolgere il loro ruolo. Ma non è questo il suo compito primario nella chiesa. Egli deve essere colui che la richiama costantemente al servizio del mondo concreto in cui essa si viene a trovare. Ha il compito di coinvolgerla e di farla partecipe del cammino del popolo in mezzo al quale essa si trova.

Questo implica che perfino l’annuncio della Parola, le celebrazioni della liturgia e, in generale, tutte le azioni della chiesa in missione, acquistino una direzione e delle caratteristiche connotate dalla “diaconia” (servizio, apertura, coinvolgimento) al mondo. Il laico dà un’impronta, o meglio esercita la sua responsabilità nella chiesa tanto quanto il prete, nella differenza dei compiti che a ciascuno sono riservati. Forse sono noioso nel dire che in genere la chiesa in certi paesi africani non ha ancora risolto il problema della sua relazione con i popoli in mezzo ai quali essa si sta radicando. Lo fa molto bene sul piano liturgico, ma su altri piani non mi pare che ci sia una convinzione chiara e lineare. Ci sono prese di posizione formidabili e a mio parere perfino esemplari per le nostre chiese di occidente, come la lettera di Natale dei vescovi tchadiani. Ma ho l’impressione che esse non scaturiscano dal terreno concreto delle azioni della chiesa, ma dalla mente illuminata di qualche vescovo. Vengono distribuite, ma rimangono estranee sia ai percorsi catechetici che alla liturgia e alla vita concreta della comunità. Forse saranno discusse nel migliore dei casi dalle ristrette commissioni parrocchiali “Giustizia e pace”.

Ma che cos’è mai questo in rapporto a un popolo che cammina? La chiesa africana, è vero, non ama l’espressione “popolo di Dio”, ma piuttosto “famiglia di Dio”. Ben venga se si tratta di mettere in evidenza il tipo di relazioni che dovrebbero esistere tra i cristiani. Ma, in un contesto africano, questa idea potrebbe essere facilmente sfruttata per sottolineare il compito del “padre di famiglia” e, a seguire, dei fratelli maggiori. E poi, l’idea di famiglia e di clan familiare potrà essere adeguata dentro una società atomizzata in miriadi di tribù e di clan familiari?

Forse un sano ritorno all’idea di “popolo di Dio” potrebbe aiutare la chiesa africana a diventare lievito dentro queste società che si confrontano con problemi enormi, e di conseguenza saprebbe indicare dei punti di inserimento e un metodo di azione a laici che siano veramente laici, con piena responsabilità nella chiesa.

 

7 gennaio. I riti del lutto

Il papà di Narcisse, un giovane che è stato in seminario fino a qualche mese fa, è morto ieri sera. Aveva due mogli che vivevano nella stessa area familiare (concession). Ha avuto dieci figli con la prima e tre con la seconda. L’area accoglie anche la moglie e i due figli del fratello, deceduto qualche tempo fa. Appena ho ricevuto la notizia della sua morte, sono andato a presentare le condoglianze alla famiglia.

Alcuni giovani stavano scavando la buca dove verso mezzogiorno sarà deposto il corpo del defunto, dentro una cassa di legno rivestita di tessuto bianco. Gli uomini entravano nel cortile e ho avuto l’impressione che si limitassero a stringere la mano ai soli uomini. Quando sono entrato, dopo aver sostato brevemente davanti alla cassa posta di fronte alla capanna che era l’abitazione del defunto, Narcisse mi ha presentato la mamma che teneva sulle ginocchia il bambino più piccolo e, successivamente, l’altra moglie del papà. La prima moglie si era tinta il volto con fango. Il fratello che segue a Narcisse e che studia da infermiere a N’Djamena è venuto a salutarmi e ha cercato una sedia per farmi sedere all’ombra di un albero. Via via che gli uomini arrivavano, passavano a dare la mano a tutti, me compreso. Le donne, invece, quando si avvicinavano al cortile di famiglia, intonavano qualche nenia a passo di danza e incominciavano a piangere chi in maniera più teatrale chi in maniera più discreta. Si dirigevano verso la cassa del defunto, vi si accoccolavano accanto piangendo e qualcuna vi si sedeva sopra. A un tratto il pianto cadenzato di una creava attorno a sé un gruppo di altre donne al passo di danza,poi, tra alti lamenti uscivano dall’area e facevano un lungo giro all’esterno attraverso i campi coltivati a sorgo.

Nel frattempo i giovani continuavano a scavare una terra dura e secca, e gli uomini stavano a guardare senza proferire molte parole. Il fatto di avere un appuntamento alle undici mi ha impedito di restare fino alla sepoltura. Sarà difficile che trovi altre occasioni e per questo me ne sono venuto via a malincuore. Prima di ripartire ho sostato brevemente per una preghiera personale davanti al feretro. Una preghiera diversa avrebbe potuto creare qualche problema per il fatto che il defunto era un non battezzato e per aggiunta poligamo. Per quanto mi riguarda, penso tuttavia che la preghiera e la misericordia non abbiano confini. Quello che ora è sicuro è che le due donne, i loro numerosi figli e i due nipoti dovranno affrontare grossi problemi. Il figlio più grande è l’unico che percepisce uno stipendio da poliziotto, gli altri studiano o sono ancora piccoli. Il più grande non si è fatto ancora sentire; i due che lo seguono sperano che sia lui a farsi carico almeno dei quattro fratelli più piccoli. Questa è la famiglia africana.

 

Ho chiesto a un ragazzo di sedici anni: “Perché ti sei iscritto al catecumenato?” “Perché ho voluto abbandonare gli idoli degli antenati e adorare il Dio vero.” Prima di rispondere mi aveva chiesto qualche minuto per pensarci sopra. Doveva essere battezzato a Sarh cinque anni fa, quando era ancora un ragazzino, ma suo padre morì proprio una settimana prima del suo battesimo. La mamma si è trasferita di nuovo a Fianga, ma Giulio, a ragione, gli aveva rifiutato il battesimo perché era ancora troppo piccolo. Qualcuno del suo villaggio gli aveva suggerito di farsi battezzare dai protestanti: in tre mesi avrebbe ottenuto il battesimo. Egli invece ha cominciato il lungo cammino del catecumenato, una vera corsa a ostacoli che ormai sta superando.

 

Da quando sono arrivato non ho più ricevuto notizie dal “mondo”: né di Obama, né di crisi finanziaria, né di altro. In questo luogo dove si deve pensare soprattutto a sopravvivere, tutto il resto non ha consistenza. Ieri sera, però, Isac mi ha detto che Israele ha fatto seicento morti a Gaza. Mi ha riportato questa notizia con tono preoccupato, come se si trattasse di qualcosa che potrebbe avere una qualche conseguenza anche dalle nostre parti e, in genere, sul mondo. Poiché Isac riceve notizie dalle radio locali, mi interrogo sul valore della radio in ordine alla formazione di una “coscienza nazionale” e sulla dipendenza delle radio locali dalle loro fonti di informazione. Sarei tentato di dire che le loro notizie sono ricevute attraverso il filtro francese, ma poi mi domando se anche i paesi del blocco arabo-islamico non abbiano la loro parte nell’interpretazione dei fatti che accadono e nell’importanza che viene loro attribuita. Per quanto riguarda l’informazione sul quadro continentale e mondiale, sento l’assenza di Giulio dalla missione di Fianga.

 

9 gennaio. Sulla strada la vita sfoglia il Vangelo

E’ bastato che mi incamminassi sulla strada verso Fianga per riempire la mia testa della vita della gente. Lungo il viaggio mi sono fermato da una donna che con la madre, la suocera e tre o quattro bambini stava pilando il miglio. Conosceva piuttosto bene il francese e mi ha spiegato sia i passaggi per pilarlo sia la scarsità della produzione, che significa automaticamente fame. Tutto è manuale e tutto, dalla raccolta alla pilatura e alla macina, è affidato al lavoro femminile. Il “progresso”, per fortuna, ha introdotto dei mulini azionati da motori che lentamente si stanno diffondendo anche nella campagna. Questo diminuisce in parte il faticosissimo lavoro delle donne.

Di seguito sono entrato in ospedale, accolto da un portinaio diverso dal solito. Ho saputo poi che il titolare era stato bastonato fino a fracassargli alcune costole, perché ritenuto responsabile -attraverso chissà quali poteri occulti- della morte del papà di Narcisse, ex-infermiere dell’ospedale. Al centro handicap ho trovato un giovane padre di famiglia camerunese che da tre mesi sta presso la figlia di dodici anni, che un giorno si è svegliata con un intenso dolore ai reni. Da allora i muscoli delle sue gambe sono come morti e non si regge più in piedi.

E’ arrivato al centro p. Justin, un prete che aveva avuto nei suoi giovani anni una notevole preparazione culturale, ma che è incappato nel solito problema: gli è scappato di fare un figlio. Il fratello minore ha così dovuto sposare la ragazza che era rimasta incinta, ma da poco tempo il fratello è morto. Per il momento il pensiero più grande è quello di organizzare la lunga veglia di tre giorni per il defunto e per il fratello maggiore che, anche lui, se n’è andato da poco.

Il papà camerunese mi ha presentato un giovane “pope” locale della chiesa ortodossa, affiliata al patriarcato di Alessandria. Così ho avuto occasione di parlare della settimana dell’unità dei cristiani, ormai prossima. Vedremo se si farà qualcosa.

Ho ricevuto anche un’informazione interessante. Il 12 o 13 febbraio arriverà in visita alla chiesa ortodossa il patriarca di Alessandria. Ho raccomandato al pope di tenerci informati. Mi sembra doveroso farci presenti anche per il significato che per secoli ha avuto il patriarcato di Alessandria in ordine al cristianesimo nell’alto Nilo e nel cono sud dell’Africa.

Ho proseguito la mia strada e il signor Mamadoù mi ha fermato per conversare con lui offrendomi una panchina per sedermi. E’ uscita a fiotti la storia delle persone che accusano altre di aver loro sottratto il sesso. Da Séré la storia si sposta a Fianga con uno strascico terribile di accuse gratuite, volte probabilmente a richiedere consistenti indennizzi, mancando i quali c’è solo il bastone più o meno selvaggio. Mamadoù mi diceva che i religiosi del posto (cattolici, protestanti, musulmani) dovrebbero essere concordi nel denunciare l’incompatibilità di queste credenze con la vera fede in Dio.

Per la mattinata tutto questo mi è bastato. Credo che questa mia immersione nella vita della gente potrebbe anche provocare delle azioni interessanti, che metterebbero in luce alcuni degli elementi essenziali del Vangelo. Forse il Vangelo non è un programma di catechesi, pur necessario. Deve essere fatto conoscere per poter essere sfogliato dalla vita della gente. Dovrebbe essere la vita che apre con sempre maggiore frequenza le pagine del Vangelo.

C’è un particolare da non dimenticare, che ho colto dalla conversazione con Mamadoù. Mi ha incuriosito il fatto che egli ricordava alcune parole di suo padre che lui ha trasformato in regola di vita. “Quando vai a trovare una persona ammalata, fallo di mattina o al massimo nel primissimo pomeriggio. Se lo fai verso sera, potresti rimanerne impressionato al punto che ti potrebbe accadere di sognarlo di notte e, nel sogno, fare il suo nome.” Una cosa del genere in questo ambiente potrebbe diventare pericolosa: nel caso che tu pronunciassi il nome in sogno, potresti essere indiziato di maleficio nei confronti della persona ammalata e perciò di essere la causa della sua malattia. Questo diventerebbe la premessa di un ciclo di violenze e di ritorsioni terribili.

Ecco perché qui, come a suo tempo agli affaticati e agli oppressi della Palestina, deve essere annunciato il Vangelo della libertà. Credo che da queste dipendenze tragiche nessuno sia immune: né Isac, che per alcuni aspetti ha l’apparenza di essere più “razionalista”, né Martin che, oltre ad essere cattolico battezzato, è anche catechista e attualmente cuoco della missione.

 

Nel cuore della città

Devo riconoscere che Giulio aveva delle ottime ragioni per collocare il centro culturale nel cuore della città di Fianga, anche se questo gli è costato qualche incomprensione a livello di équipe. Tre anni fa mi trovavo d’accordo con lui e ora confermo la mia opinione. Da quando il collegio, cioè la scuola superiore, è stato spostato dall’altra parte della cittadina, l’impressione di una missione-monastero mi diventa sempre più forte. Può essere addirittura un vantaggio, ma a me la gente manca. Alle volte devo respingere perfino l’impressione che mi si affaccia di una missione a modello gringo, soprattutto protestante.

Al di là, tuttavia, delle mie impressioni mi è capitato di assistere a una conferenza che ha avuto luogo nel centro culturale su “Giovani, sviluppo e possibilità d’impiego”, a cui hanno partecipato centocinquanta giovani della città. Credo che sarebbe stato impossibile pensare a una tale partecipazione se si fosse fatta nelle strutture della missione. Ho la convinzione che il centro culturale possa svolgere un grande ruolo di formazione permanente e di proposte serie, e che esso possa essere gestito da rappresentanti dei diversi gruppi umani e religiosi presenti a Fianga. Sono dell’opinione che un aiuto al centro costituisca una vera azione di sviluppo. Per fare ciò occorrerebbe forse la presenza di qualche laico a tempo pieno.

Quando sono uscito dalla conferenza, di cui mi ha soddisfatto più il dibattito che la presentazione del tema, ho visto nella grande spianata del mercato una folla impressionante di gente, soprattutto giovani, che giocavano, si intrattenevano, camminavano. Era la gente a cui non possiamo restare estranei.

 

12 gennaio. L’innocenza del creato

Ieri, domenica, ho celebrato la messa a Fianga. Era inevitabile parlare, durante la messa, di ciò di cui si parla in città, e cioè della “sparizione del sesso”. Ma ieri era la festa del Battesimo di Gesù che, in questi luoghi in cui il battesimo è una realtà fresca e attuale, non è meno importante. Io avevo tutta l’intenzione di ancorare saldamente la messa sia alla celebrazione liturgica del Battesimo di Gesù sia al problema che scuote la città in questi giorni. La cosa non era facile, ma ne sentivo tutta la responsabilità e per questo con frequenza ho invocato l’assistenza dello Spirito. La riflessione fu, come sempre, lunga e dialogata, tesa a capire il Vangelo e a trarne dal testo tutti gli elementi che possono dire cose importanti al cristiano che vive dentro questa cultura.

Il primo elemento fondamentale lo abbiamo colto nell’immersione di Gesù nelle acque del Giordano. Per la gente l’acqua del lago, del fiume, dell’acquitrino è abitata dagli spiriti cattivi, al punto che, a volte, un intero villaggio si mobilita per scacciare gli spiriti maligni dalle acque al suono di grida e tam-tam che a catena si trasmettono di villaggio in villaggio fino a risalire il corso del fiume.

L’immersione di Gesù nelle acque dichiara invece l’estraneità delle acque alla sottomissione a qualsiasi spirito cattivo, perché nessuno spirito malvagio può essere più forte di Dio. Questo può sembrare un linguaggio arcaico, ma esprime con sufficiente chiarezza ciò che noi chiamiamo “innocenza del creato”. Ed è per questo che alla fine dell’omelia ho voluto prendere una grande calabasse di acqua per spargerla su tutta la chiesa: l’acqua ha in se stessa la benedizione di Dio, anzi l’acqua è benedizione di Dio. Parlando dell’acqua, però, abbiamo parlato della forza-potenza di Dio, che è il più forte in rapporto a qualsiasi altro che si vanta di possedere poteri occulti. Non c’è nessuno che possa resistere alla potenza di Dio. Quante volte nei Salmi noi affermiamo che Dio è il re, il Signore, il sovrano che non è limitato da nessun’altra potenza.

Questa riflessione, fatta durante l’omelia, mi ha dato la possibilità di parlare, ma solo alla fine della messa, prima del congedo, degli “strani rumori” che corrono in città. A questo proposito mi sono riferito al rimprovero esasperato che Paolo rivolgeva ai cristiani galati, senza però né dirlo né rivolgerlo a loro. Mi sono limitato a dire che il cristiano è una persona libera, perché liberata da Cristo che è il Signore, il Vincitore, e che per questo non è possibile tornare indietro per sottomettersi alla paura e alle pratiche di una volta. Credo che il discorso sia stato capito; quanto esso possa essere stato condiviso è altra cosa.

Quello che è certo è che tutte le espressioni legate a un’ancestrale tradizione di “sorcellerie” (stregoneria) vanno analizzate a fondo per non buttar via la ricchezza di una tradizione, ma anche perché ci si liberi da alcune delle sue manifestazioni più grottesche e più disumane.

 

L’incontro con l’imàm finisce in preghiera

Oggi sono andato con Songo a trovare l’imàm, che mi ha accolto con l’abituale gentilezza. All’entrata ho trovato una ventina di bambini che stavano ripassando qualche sura del Corano. Ho parlato con l’imàm dell’argomento del giorno e gli ho espresso il desiderio di Mamadoù di coinvolgere gli “uomini religiosi” (cioè i responsabili religiosi) della città nella preghiera e nella condanna. Ho chiesto se nel Corano ci fosse un’esplicita condanna della sorcellerie e gli ho chiesto l’eventuale riferimento al testo. Mi ha detto che attualmente è molto occupato dalle incombenze del suo ruolo di imàm (celebrare matrimoni, imporre nomi ai neonati, dirimere questioni), il che non gli permetteva lo studio del testo. Io gli ho detto che sarei ripassato dopo qualche giorno e gli ho rivolto l’invito a trovarci una sera a cena prima della mia partenza per l’Italia. Egli mi ha ringraziato dell’invito e prima che partissi mi ha chiesto la preghiera su di lui e sulla comunità. Ho recitato il Padre nostro, lui con Songo ha recitato la Fatiha e ci siamo lasciati. Ormai la preghiera reciproca è diventata una costante di questi nostri incontri.

 

Sulla strada ho trovato all’ombra del solito albero l’anziano musulmano, che mi ha salutato con la solita cordialità. “Aspetto il mio giorno quando Dio mi chiamerà. La mia boulle (polenta) ormai l’ho mangiata”; c’è nel suo volto un sorriso luminoso. Alla sera nella recita dei Salmi trovo il versetto: “(l’osservanza) dei tuoi comandi rende trasparente il mio volto”. Se non sono attento alla vita che si svolge attorno a me rischio di perdere anche la ricchezza della Parola.

 

14 gennaio. Lettera di Natale alla comunità di Fanzolo

Oggi ho scritto una lettera alla comunità di Fanzolo. E’ un atto dovuto. Rientra nei compiti di chi ha fatto del pendolarismo una scelta di vita.

Cari amici di Fanzolo,

                                    a un mese dal mio arrivo nella missione di Fianga vi mando due righe per trasmettervi qualche cosa di quello che sto vivendo. I nostri preti diocesani stanno bene e come sempre sono molto disponibili all’accoglienza e a farmi sentire a mio agio.

Ho ritrovato molte persone che ormai conosco e che hanno manifestato con cordialità il piacere di rivedermi, domandando notizie degli altri amici che sono passati di qua.

Anche quest’anno mi sono impegnato a tenere un diario su cui scrivo le mie impressioni quasi ogni giorno e che ora sfoglio per voi alla ricerca di qualche cosa che potrebbe suscitare il vostro interesse.

 

1. Innanzitutto ho celebrato il Natale. “Natale con i tuoi...”, cioè con i poveri. Questa è la vera casa comune dei cristiani. Qui a Fianga non mi sono nemmeno sognato di essere in casa d’altri. Mi sono sentito a casa mia... e tanto vicino al presepio!

Ne ho avuto un segno: alle sei del mattino Papì, un ragazzo di quattordici anni, sporco e stracciato come un pastorello di Betlemme, è arrivato in missione con una piccola giara di bili-bili (bevanda leggermente alcolica fatta in casa) che la mamma aveva preparato e di cui ora faceva dono anche ai preti. Io ho vissuto questo episodio come una singolare coincidenza con quanto è avvenuto a Betlemme.

 

2. A Natale la gente ha fatto festa per almeno due giorni e due notti. E’ facile fare festa. Ma se penso che il cristianesimo esiste da queste parti solamente da una cinquantina d’anni (anche un po’ meno) mi dico che esso ne ha fatta di strada in così poco tempo!

Le feste del Natale non necessariamente significano che il Vangelo è entrato nella vita della gente, ma che ha impresso qualche elemento nuovo di identità collettiva e ha acquistato una visibilità sociale.

Ma la vita della gente in che misura è stata trasformata dal Vangelo?

 

3. L’argomento principale di discussione, e che allo stesso tempo incute paure generalizzate in queste ultime due settimane, riguarda una strana storia di stregoneria che si suppone essere in grado di far sparire ad alcune persone alcuni dei propri organi. La paura diffusa e montante è un elemento pericoloso dentro una comunità e, per quanto mi consta,

ben pochi ne sono immuni.

Questo ha provocato già la morte di tre giovani nel vicinissimo Camerun, perché ritenuti responsabili della sparizione di questi organi.

In una delle mie visite a Jérome mi è stato chiesto se potevo incontrare un gruppo di giovani (13) soprattutto aderenti alle comunità protestanti. Ho dato appuntamento in uno di questi caldi pomeriggi e ci siamo trovati nel cortile della capanna di Jérome, dove erano stese due stuoie. Ho portato la Bibbia e abbiamo incominciato la lettura e il commento di diversi testi dei Vangeli di Luca e Matteo.

Abbiamo parlato della forza e della potenza di Dio, con cui nessuno si può misurare; dell’invito di Gesù a non avere paura; dell’attenzione preoccupata di Dio perfino nei confronti degli uccelli, anche i più piccoli; della nostra fiducia in Dio, che è il garante della nostra vita e della nostra integrità. Abbiamo parlato del Vangelo che è libertà, fiducia, gioia e che diventa luce per noi e per gli altri. Abbiamo concluso con una preghiera spontanea fatta da uno dei giovani presenti...: Vita e Vangelo...

 

4. Ma quanto tempo occorrerà al Vangelo per diventare carne e sangue di questa cultura? E come lo diventerà? Una risposta può venire dall’opera di Luca, cioè dal Vangelo e dagli Atti. La Parola segue un suo percorso; il cammino della Parola è una lunga avventura. Lo è stata agli inizi, lo è ora per tanti popoli e per tante culture. L’avventura del Vangelo deve essere seguita con pazienza, che non teme il passare del tempo.

 

5. E per noi in Occidente, che cosa significa questo?

Noi forse abbiamo conservato i tratti identitari del cristianesimo, ma abbiamo buttato via il Vangelo dalla nostra vita. Ne stiamo perdendo il vivo interesse che ho notato sul volto di questi giovani e soprattutto non lo troviamo più significante di fronte ai problemi che accadono in noi e attorno a noi.

Appena arrivato in Ciad ho letto con enorme piacere la lettera di Natale della Conferenza Episcopale. Una denuncia puntualissima sulla corruzione che si pratica innanzitutto a tutti i livelli istituzionali, ma poi anche a livello personale e perfino all’interno della stessa chiesa. Ho arrossito nel leggerla perché mi dicevo che in Italia non c’è lo stesso coraggio e la stessa maniera puntuale di analisi e di denuncia di fatti molto simili che stanno distruggendo il tessuto civile ed etico della nostra società italiana. Anche questa paura è un segno che stiamo perdendo per strada il Vangelo e che lo sostituiamo con i calcoli della prudenza umana. Il contatto con i cantieri aperti del Vangelo in atto in queste giovani cristianità può diventare utile per noi e, credo, anche per loro.

A presto

                                        Don Giuliano

 

Ho partecipato all’incontro preparatorio di coloro che inizieranno il corso biennale di formazione a Gouyou. Otto coppie vivranno per due anni con i loro figli nel centro comunitario, ricevendo una formazione religiosa e agricola. E’ una delle esperienze più interessanti che abbia visto da queste parti. Alle coppie che avevano terminato il loro stage tre anni fa avevo regalato una Bibbia e un... asino!

Io considero Gouyou come una breccia attraverso la quale la missione di Fianga si apre al mondo dei contadini, che è la condizione di vita prevalente delle persone che vivono in questo territorio. Certo il metodo di formazione è molto deduttivo: vi si impartiscono lezioni su ogni campo, da quello catechetico a quello agricolo o sanitario. Non dico che a Gouyou si parta dalle definizioni, come ho sentito fare nella conferenza su “Giovani, sviluppo e possibilità di impiego”, ma la formazione popolare, a partire dalla gente e insieme con la gente, è ancora da mettere a punto.

 

Don Stefano in missione - mucche attraversano il lago Fianga17 gennaio. Conversazioni notturne

Da ieri sera sono nella missione di Tichém. Da qualche mese Giulio ha lasciato Fianga e si è spostato in questa missione. Dopo cena ci siamo trovati a conversare nel cortile antistante l’abitazione, seduti comodamente su due poltrone di legno e con un bicchierino di Calvados sul tavolino. Certo la missione è anche questo.

L’oggetto della nostra conversazione era l’interessante esperimento di collaborazione che si vuole ritentare tra i preti di Treviso e i preti del PIME a servizio del popolo toupouri. Le resistenze sono ancora molto forti, ma la decisione sembra ormai presa. La nostra conversazione si è poi spostata su un terreno di interesse comune. “Che senso può avere per il cristianesimo l’esistenza delle altre religioni?”

I preti della missione di Fianga e io stesso viviamo e lavoriamo in un contesto religioso segnato dalla presenza dell’islàm e, qui, anche dalla religione tradizionale. Io ho ricordato l’atteggiamento pensoso e quasi mistico di Giovanni Paolo II, che si interrogava sul senso di queste diverse vie religiose percorse dall’umanità. Egli rispondeva a se stesso che una qualche ragione di esistere ci deve pur essere, anche se non siamo ancora in grado di capirne appieno il senso. Questa varietà affonda comunque le sue radici (la sua logica) nel mistero stesso di Dio, che noi non riusciamo a cogliere, ma che “un giorno si svelerà”.

“Certo -diceva Giulio- ma noi non possiamo rimandare “al giorno senza tramonto” almeno un parziale riconoscimento del senso positivo o anche ‘necessario’ dell’esistenza di questa pluralità di vie religiose. L’idea che esse siano una semplice preparazione (pierres d’attentes) che invoca il cristianesimo non può essere sufficiente, oltre che essere irriguardosa nei loro confronti.” Allora ho ricordato un’altra espressione di Giovanni Paolo II: “Il dialogo inter-religioso deve essere vissuto come scambio di doni.” Cioè la provvidenzialità dell’esistenza degli altri va riconosciuta in quanto gli altri mi possono donare cose che io non possiedo compiutamente e io stesso posso donare quello che io vivo. E’ il cosiddetto dialogo “recettivo”, che sicuramente ci mette in una posizione più rispettosa degli uni verso gli altri.

La nostra conversazione è caduta poi sulla chiesa in Africa. Eravamo sostanzialmente d’accordo che la definizione che di se stessa ha dato la chiesa africana nel precedente sinodo “Chiesa - famiglia di Dio” sembra creare più problemi che risolverli. Il sentimento della famiglia in Africa è sicuramente molto forte, ma si possono fare due o tre obiezioni di grande importanza.

Anzitutto c’è nella famiglia africana un forte senso del pater familias, che può andare molto bene per sottolineare la preminenza della gerarchia all’interno della chiesa, ma difficilmente esprime la realtà profonda del popolo dei battezzati. In secondo luogo la tradizionale famiglia africana è poligama e il ruolo della donna è sicuramente subordinato: come parlare allora dell’uguaglianza dei battezzati? Infine la strutturazione, perfino all’interno della stessa tribù, in clan familiari spesso in posizione molto conflittuale tra di loro, come può esprimere l’unità e la fraternità del popolo di Dio? Forse il primo sinodo africano è stato celebrato quando si voleva fare uno sgambetto alla teologia conciliare del “popolo di Dio”, ma a distanza di anni non si possono osservare le difficoltà che questa “figura” pone per una reale comprensione del mistero della chiesa. Meglio tornare al Concilio!

 

18 gennaio. Una lezione di formazione popolare

Dalle dieci del mattino alle tre del pomeriggio ho partecipato a Loncò a una sessione di formazione tenuta da Giulio a venticinque animatori degli incontri domenicali nei diversi settori e comunità. In programma è la preparazione dei Vangeli delle domeniche successive, che essi sono poi tenuti a spiegare nelle assemblee domenicali. Devo dire che sono stato colpito dal metodo che si è seguito: lettura in lingua toupouri realizzata per gruppi; riflessione in gruppo a cui è seguita l’esposizione dei tre rappresentanti a tutta l’assemblea, seguendo uno schema che partiva dalla comprensione del testo per passare all’individuazione del soggetto principale, alla posizione che Gesù prendeva nei confronti del problema, all’attualizzazione nel concreto della vita della persona, della comunità cristiana e del villaggio. Una lentezza che a noi, abituati ad altri ritmi, sembra esasperante, ma che risponde invece perfettamente ai ritmi di apprendimento e di interiorizzazione di persone semi-analfabete.

E’ stata una bellissima lezione. Mi ha colpito l’ultimo dei tre relatori di gruppo, che ha svolto il suo compito in maniera brillante. Il prete si limita a formare chi poi concretamente agisce nella comunità. Anche a questo incontro non poteva mancare la storia della sparizione del sesso. Si tratta di una vera epidemia di credulità popolare, che Giulio ha tentato di arginare dapprima con nozioni piuttosto ruvide di fisiologia del sesso soprattutto maschile e poi, in modo a mio parere più convincente, facendo riferimento “alla libertà con la quale Cristo ci ha liberati”. A dire il vero, questo discorso è stato introdotto in maniera brillante e circostanziata dal rappresentante del terzo gruppo.

Loncò, dove tutto questo si è svolto, è il villaggio dei “sorciers”, persone credute stregate, portatrici di malocchio. E’ un bel villaggio, rifugio per tutti coloro che, magari per invidia, sono accusati di possedere poteri occulti e malefici. Quando vengono accusati di questo, devono fuggire dalla loro terra. Qui hanno l’occasione di rifarsi la vita con le loro famiglie. Poiché si tratta, in genere, di persone intraprendenti al punto di aver suscitato l’invidia di altri, che non hanno trovato niente di meglio che accusarli di stregoneria, stanno trasformando il villaggio di Loncò in uno dei più dinamici del territorio.

 

Alla fine Giulio ha raccolto le offerte domenicali delle comunità, l’autotassa per il culto e il contributo per il sostentamento del clero. Ho visto un consistente mucchio di banconote e questo accade ogni mese e mezzo. I cristiani africani si stanno mobilitando per creare condizioni di autonomia economica.

 

19 gennaio

Oggi è toccato a me tenere lezione ai tre padri della missione. Dalle 8.30 alle 11 del mattino ho fatto il punto sul dialogo tra chiesa cattolica e Islàm. Me ne avevano fatto esplicita richiesta, e così ho trovato a Fianga degli ascoltatori che difficilmente troverei nella mia diocesi in Italia. E’ proprio vero che la missione allarga prospettive e orizzonti; fa entrare nelle persone nuove sensibilità e nuovi interessi; ridimensiona scelte e forme di vita che sembrano intoccabili. Ed è per questo che ti allontana poi da coloro con cui condividevi molte cose prima della missione. Don Silvano, ritornato a Treviso dopo dodici anni, nei primi giorni del suo servizio da parroco diceva di aver l’impressione di “star giocando con le bambole”. Chi ritorna avverte questa distanza e non la può dichiarare molto apertamente se non a quelli con cui ha più confidenza. Agli altri ciò sembrerebbe disadattamento o orgoglio.

B., della cui condizione di poligamo ho scritto, è riuscito a trovare con la famiglia della seconda ex-moglie un accordo siglato anche dal giudice. Mi ha detto che ora deve parlare con i preti della missione. Io gli ho confermato che i nostri incontri dovevano arrestarsi su questa soglia e che ora restava la riconciliazione con la comunità che, evidentemente, deve essere concordata con i padri della missione. Sono stupito positivamente di quanto sta succedendo e dello stesso atteggiamento di B., che riconosce tranquillamente che occorre anche il passaggio attraverso la comunità per essere reintegrato nei ruoli precedenti. Come lo scandalo è stato pubblico, pubblici devono essere anche il riconoscimento della colpa e la richiesta di perdono. Mi pare di respirare il clima dei primi tempi della chiesa.

 

20 gennaio. La lezione di Baba Simòn

Sto leggendo un libro che mi appassiona. Un prete francese che è anche medico scrive la sua esperienza vissuta a Tokombéré in Camerun alla scuola di Baba Simòn, un prete camerunese che nel ‘59 lascia la sua bella parrocchia del Sud per spostarsi nel Nord tra “gli infedeli” (i kirdi) che appartengono a diverse tribù. Cristian Aurenche, autore del libro, e Jean Marc Ela (il grande teologo africano, non molto ascoltato, e morto in questi giorni) sono stati i collaboratori di questo prete fuori del comune, che aveva intuizioni assolutamente geniali circa il rapporto tra la “Parola Nuova” del Vangelo e le antiche Parole della religione tradizionale africana.

Andava scalzo, vestito di una tunica bianca (come tanti anziani di qui), saliva le montagne dove i grandi sacerdoti e capi delle diverse tribù vivevano, occupandosi di sacrifici e preghiere, espresse in forme molto diverse da quelle a cui siamo abituati. A volte si fermava con loro durante tutta una settimana, da uomo religioso in dialogo con uomini religiosi. Vi discendeva con la convinzione che la Nuova Parola del Vangelo poteva benissimo innestarsi sulle antiche parole e che la fede nel Dio unico poteva trovare compimento nella rivelazione del suo Figlio primogenito, Gesù di Nazareth. La sua esistenza era una continua intuizione a cui i due preti collaboratori davano corpo e plausibilità sia sul piano culturale e teologico sia sul piano pratico. Questa forma di evangelizzazione non si esauriva in un puro esercizio di inculturazione tanto raffinata quanto distante dalla gente. Jean Marc Ela, prete camerunese che era un intellettuale di razza, ha scritto il libro “La mia fede di africano” a partire dalla sua frequentazione di Baba Simòn e della sua gente (i Kirdi) che spesso dovevano affrontare problemi legati alla fame, alla siccità, alle malattie. Proprio lui, teologo affermato e di fama internazionale, intraprese presso le varie tribù una campagna annuale a cui aveva dato un titolo strano: “Seguiamo il bue”. La finalità era quella di sviluppare l’allevamento bovino per poter arare la terra e produrre meglio e in maniera più tempestiva, per disporre di risparmi in caso di carestia, per migliorare l’alimentazione. Il metodo era semplicissimo ed era quello usato invariabilmente da Baba Simòn.

Tutto partiva da tre domande. La prima era: Che cosa rappresenta il bue nella nostra tradizione? Lì incominciavano già gli ostacoli: questi animali sono considerati buoni per i sacrifici o per la dote, ma non per farli lavorare. La seconda: chi siamo noi? Siamo degli uomini. Ma allora, siamo noi a servizio dei buoi o i buoi sono per gli uomini? Terza: Quale futuro vogliamo per noi e per i nostri figli? Che cosa impedisce la realizzazione dei nostri progetti? A questo punto venivano a galla tutti i problemi legati alla sanità, all’alimentazione, all’agricoltura, all’educazione...

Queste cose che vado leggendo riescono ancora ad affascinarmi perché sotto l’apparente semplicità ci sono intuizioni formidabili; c’è un metodo popolare semplicissimo ed efficace e la Nuova Parola si innesta quasi naturalmente sulle tradizioni antiche.

Ma quante sono attualmente in Africa le forme dell’Annuncio che seguono queste strade? Non affidiamo la trasmissione della Parola a una struttura razionale tipicamente occidentale? Non corriamo il rischio di mantenerla estranea alla vita della gente? Tre anni fa avevo donato agli “stagiaires” di Gouyou una Bibbia e un asino. Forse l’abbinamento era azzeccato, ma avrebbe bisogno di un lungo percorso di assimilazione alla vita della gente e di inculturazione della Parola.

 

20 gennaio. Fabio

Fabio è la persona con cui, interiormente, dialogo di più. Con lui concordo su tante sue scelte e da lui dissento su altre.

Ama i fiori, i tessuti africani e la pulizia. Mi pare di capire che ama queste cose non solo per se stesse, ma per mettere la missione in condizione di accogliere meglio chi viene in visita. Ha un fortissimo senso del dovere che lo trattiene per ore nella stanza del computer quando deve preparare l’annuncio della Parola, le lezioni di catechesi, l’organizzazione della vita di Gouyoù e il controllo della sua amministrazione. E’ distaccato dai soldi ed è un uomo di principi persino intransigente per certi versi. E’ convinto molto più di me che la chiesa di Treviso sia una “bella” chiesa, anche se sento sempre più affiorare in lui dei rilievi critici.

E’ un uomo modesto e proprio per questo, credo, sa tessere reti di amicizia o quanto meno di comunicazione in situazioni di conflitto. Condivido con lui un’ammirazione appassionata verso il card. Martini e i suoi scritti.

Dissento da lui quando... non raccoglie la gente per strada (!) o quando si ispira a una coerentissima, ma per me troppo rigida scelta di astensione da ogni forma di aiuto o di utilizzo di fondi, anche se manifesta una grande tolleranza nei confronti di chi agisce diversamente da lui.

Non ama... le risorse alimentari locali, salvo i manghi della missione che prima difendeva con i denti e di cui ora è rassegnato bonariamente al puntuale saccheggio operato dai ragazzi del paese.

Mi intriga, a volte, la diversità fra la sua accoglienza amichevole ed entusiasta verso i visitatori italiani o le persone di chiesa e la sua relazione professionale, cioè pastorale, con la gente del posto. Ma credo che questo venga dall’insistenza della gerarchia, che in questo ultimo ventennio, a forza di parlare di “carità pastorale” e di “fraternità sacerdotale”, arrischia di farci dimenticare la bellezza della carità senza aggettivi, come pura splendida relazione con chicchessia e con la stessa intensità di amore.

Credo che se fossi permanentemente in missione avrei bisogno di avere sempre come amico uno come Fabio per mettermi in discussione su certe scelte; per avere di fronte a me un uomo di principi che mi stimoli a essere coerente; per vivere in maniera positiva e dialogante la diversità delle mie opinioni... e con il quale prendere il caffè alle tre del pomeriggio, conversare alla sera prima di ritirarci nel silenzio della nostra stanza, e parlare male, qualche volta... delle suore, ma solo quando è necessario!

 

21 gennaio. Anche il grande marabout può imparare

Ieri sono andato con Stefano a far visita all’imàm. Trovo strano che a un anno dal suo arrivo nessuno prima di me l’abbia accompagnato per essere presentato e avviare uno scambio cortese di visite. Il giovane imàm si stava intrattenendo con un suo collega della città di Yagouà, la provincia del Camerun confinante con il Tchad. Questo “gran marabout” originario di Guidiguis è cognato del defunto imàm di Fianga. Un uomo prestante e, da un primo contatto, piuttosto grezzo. Difatti, senza molto rispetto per il padrone di casa, ha preso in mano la conversazione in modo piuttosto arrogante. Ha parlato con atteggiamento velatamente derisorio della nostra condizione di preti celibi con un ragionamento apparentemente ineccepibile: “Se non ci fosse il matrimonio, né io né lei ci saremmo.” Con tutta evidenza il marabout (gran imàm) non aveva avuto molti contatti con dei preti e si comportava secondo i pregiudizi che caratterizzano una certa tradizione musulmana. Mi sembrava anche di notare il disagio dell’imàm e dei due traduttori locali, che ormai da anni sono abituati a ben altri rapporti con i preti della missione. Ho creduto bene allora di intervenire ricordando il vecchio imàm, che era suo cognato. Gli ho riferito dell’ultima conversazione che ho avuto con lui tre giorni prima della sua morte ricordando le sue parole: “Ciascuno arriva a Dio per strade diverse.” Ho parlato dell’amicizia che ha caratterizzato le nostre conversazioni con lui giorni prima della sua morte e con il suo giovane successore. Gli ho parlato dell’invito rivolto ai preti della missione a partecipare alla festa del Tabaski e alla successiva preghiera fatta da noi preti cristiani e da loro musulmani per la città di Fianga e della preghiera che ci ha invitati a fare a casa sua per invocare anche da labbra cristiane la benedizione di Dio. Il ricordo del defunto cognato e dei vari episodi a cui avevo accennato hanno ridotto in modo notevole la sua maleducata arroganza. Ed è stato allora che gli ho parlato della necessità che tra cristiani e musulmani ci siano rapporti di reciproco rispetto e amicizia. Visto poi che era camerunese e imàm di una città inferiore per importanza a quella di Maroua, gli ho raccontato della visita del grande imàm di Maroua al vescovo della città non appena aveva saputo che era stato ricoverato in ospedale e gli ho riferito le parole del vescovo: “Tutto questo è molto bello, ma molto fragile.” Mi sono poi permesso di concludere che da questo punto di vista Fianga è un giardino e un esempio di tali relazioni, e che spetta a tutti noi il compito di renderle veramente solide.

Finalmente il giovane imàm di Fianga ha ripreso l’iniziativa sia per dirci che avrebbe fatto di tutto per restituirci la visita alla missione, sia per invitarci a recitare una preghiera conclusiva del nostro incontro, a cui partecipò anche il “marabout” di Yagoua. E’ mia convinzione che ciò che si fa anche nel più sperduto luogo del mondo abbia prima o dopo una ripercussione in ambienti più vasti.

Qualche giorno fa ho avuto una lunga conversazione con uno dei rari giovani toupouri islamizzati. Lo avevo incontrato all’uscita dalla conferenza tenuta nel Centro culturale di Fianga. Mi diceva che non capiva perché un giovane musulmano deve guardarsi dal parlare con dei cristiani. Così la nostra conversazione era andata avanti su diversi temi. A un certo punto mi ha detto che sentiva il desiderio di scrivere dei racconti e di fare una poesia. A me non sembra neppure vero di trovare dei giovani che esprimono questi desideri e così l’ho incoraggiato offrendogli un quadernone. Ieri è tornato a trovarmi qui in missione. Gli ho parlato di un gran musulmano nero, amico dei cristiani, Hampate Bà. Sono stato colpito dal fatto che egli dimostrasse di conoscerne la biografia. Gli ho parlato anche del sudanese Taha Husein, impiccato nel 1986 a Khartoum, perché ritenuto eretico, dall’attuale presidente del Sudan. Lui mi ha parlato dei suoi racconti. Pare ne stia facendo uno sul sequestro di bambini pastori a scopo di estorsione e uno sulla sottrazione del sesso da parte di chi è indiziato di possedere poteri occulti. Per inciso, mi sembra che queste voci vadano verso l’esaurimento. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i gendarmi e il giudice siano decisi a mettere allo scoperto gli organi genitali delle cosiddette vittime. In caso di rifiuto li obbligano a dichiarare che quanto hanno affermato è tutto falso e poi vengono rinchiusi in prigione in attesa di una sentenza definitiva del giudice. Credo che una giustizia ben esercitata potrebbe contribuire in maniera determinante a eliminare pericolosi focolai di vendette e di violenza che poi difficilmente si arrestano.

 

22 gennaio. Il Vangelo nella vita della gente

Forse non è male che il Belàc, un grosso organismo di promozione umana che lavora a livello diocesano, sia andato in crisi. C’è un problema di calibratura di salari ai dirigenti, di corruzione e di ammanchi. Ma io credo sia sbagliato occuparsi solo della sua traballante situazione amministrativa. A mio parere questa potrebbe essere la crisi salutare di una forma della presenza e dell’azione della chiesa, e cioè della separazione delle attività di evangelizzazione dalle cosiddette attività di promozione umana, con il risultato che l’attività evangelizzatrice si orienta a essere per lo più una forma di conoscenza intellettuale dell’annuncio evangelico e la promozione umana un fatto tecnico-amministrativo. A partire dalla mia sensibilità e dalla mia esperienza di missione, tendo a pensare che è esattamente questa separazione la vera radice della crisi.

Da quando il Belàc è in crisi non si occupa più di pozzi e ciò restituisce alla missione di Fianga la responsabilità e l’iniziativa in questo campo, con il risultato che i costi vengono abbattuti almeno del 30% e che le sei o sette riunioni richieste sono di competenza del personale della missione. Purtroppo si tratta ancora di riunioni di carattere tecnico, non accompagnate da una riflessione popolare di coscientizzazione e di evangelizzazione. A meno che non si consideri che ciò è presente, in modo implicito, negli stessi fatti. Per questo non dovrebbe preoccupare più di tanto l’iniziativa di un’associazione islamica di offrire il pozzo a una comunità alla cifra irrisoria di 30.000 CFA (40 euro!). Se è questione di soldi, si tratta di una concorrenza spietata, ma se è questione di costruzione di comunità è un’altra cosa.

 

Louer - affittare...

La parola è francese, ma è conosciuta anche dai giovani toupouri: louer - affittare. In questo caso, però, non si tratta di dare in affitto un terreno, una capanna o qualcos’altro, ma di dare in affitto la propria figlia! L’ho scoperto solo ieri, allorché la suora di Séré mi ha detto di aver trovato una mamma che presto darà alla luce un figlio infetto da AIDS. Il marito giovane lavora a Douala (Camerun) e già questo potrebbe essere un indizio su chi ricadrebbe la responsabilità di averla contagiata. Poi, sovrappensiero, suor Annamarie ha aggiunto: “E’ vero che questa ragazza è stata affittata più volte dal padre.” Può succedere, infatti, che un papà a corto di soldi dia in affitto sua figlia a un uomo per uno o più giorni, secondo il prezzo pattuito. Voglio sperare che questo succeda solo in casi di assoluta necessità, cioè di vita o di morte, anche se una decisione così estrema per nessuna ragione dovrebbe essere presa dal padre, ma semmai dalla figlia che accetta deliberatamente di sacrificarsi. Temo però che l’iniziativa sia proprio del padre, che piuttosto di vendere una capra o una pecora preferisce dare in pasto la propria figlia ai voraci istinti di un uomo, giovane o vecchio che sia. E’ proprio una sfortuna da queste parti nascere donna!

 

Modelli in crisi

Don Stefano in missioneDurante la cena ho fatto una bella conversazione con Stefano. Mi parlava del modello di evangelizzazione che secondo lui è in crisi, ma che è difficile cambiare perché è il modello diocesano. Innanzitutto il prete gira molto da una parte all’altra delle vaste parrocchie per preparare le lezioni di catechesi con i catechisti o per spiegare i Vangeli con gli animatori delle Comunità. Ogni mese e mezzo o anche ogni due mesi il prete incontra questi agenti di evangelizzazione per qualche ora. Stefano avverte la mancanza di relazioni e di continuità nella presenza. Secondo lui anche i catechisti sono un po’ in crisi. Ce ne sono alcuni che compiono il loro dovere e altri che hanno meno scrupoli, ma che poi ugualmente danno per svolto il loro programma di catechesi e garantiscono costanza di partecipazione dei catecumeni senza darne le prove. Agli interrogativi sull’organizzazione della vita del prete e sulle complicità dei catechisti si aggiungono anche le perplessità sui percorsi di preparazione che sono stati fin qui individuati. Giulio ha ridotto a sette o otto i nuclei principali del Vangelo sui diciotto proposti dal percorso diocesano. Questa situazione sta ponendo a Stefano un sacco di punti di domanda. Da quanto mi racconta, i preti vicentini hanno invece circoscritto all’estremo il loro luogo di presenza e di azione in Camerun e vi si stanno dedicando a fondo per individuare strade che uniscano l’annuncio del Vangelo con il recupero della tradizione e la trasformazione della qualità della vita della gente a livelli più umani. Non si preoccupano più di essere presenti in quanti più luoghi possibile, ma di incidere a fondo in un luogo limitato.

Tutte queste perplessità, a mio parere, devono essere coltivate. Perciò anche i nostri preti devono permettersi di fare dei confronti con altre esperienze e di tentare qualche strada nuova senza smantellare quello che è stato fatto. Che Dio li aiuti!

 

L’alcol tra libertà e controllo di sé

Ho incontrato per la seconda volta il gruppo di giovani della scuola superiore “Avenir” nel cortile di casa di Jérome. Il tema che avevano proposto, Bibbia alla mano, è il consumo di alcol. Il metodo potrebbe sembrare un po’ fondamentalista, ma nel contesto africano, in cui il giovane ascolta volentieri il consiglio dei vecchi, rileggere testi come quelli dei Proverbi e del Siracide fa un effetto singolare e benefico. Si tratta di definire la posizione del cristiano nei confronti delle bevande alcoliche, generalmente considerata molto permissiva. I musulmani, fra i quali questi giovani convivono quotidianamente, hanno una visione totalmente negativa e peccaminosa dell’alcol. La Bibbia, invece, dice che il vino è un ingrediente necessario della festa perché rallegra il cuore dell’uomo, salvo inconvenienti indecorosi come quelli in cui incorse Noè, il primo viticultore. I giovani sembravano sollevati da queste mie affermazioni basate su testi biblici. Ma nella Bibbia non c’è solo questo! Il vino va bevuto quando occorre e nella misura che va bene, altrimenti diventa causa di povertà, di vergogna, di violenza, di ragionamenti senza capo né coda. Tutto questo essa dice, in alcuni dei suoi passaggi. Consigli di sapienza umana, si direbbe, ma per noi tutto ciò che è autenticamente umano porta impressa l’orma di Dio.

Mi sono stupito che questi giovani neppure conoscessero la parola “moderazione”, che ho dovuto spiegare. Lo stupore di fronte all’affermazione biblica che il vino è una cosa buona se bevuto con moderazione, mi ha dato la possibilità di spostare il discorso su tutto ciò che è creato da Dio, che deve essere considerato bello e puro in se stesso. Anche il maiale, e qualsiasi altra creatura, è in sé bella e pura. E’ questo uno sguardo che infrange tanti tabù, soprattutto se penso che questo tipo di conversazioni sono tenute nel cortile di una casa inserita nel cosiddetto quartiere arabo a maggioranza musulmana.

 

23 gennaio. Chiesa matrice e comunità succursali

La chiesa di Fianga raccoglie dalla questua della messa una somma che qui può essere considerata notevole. La media domenicale oscilla tra i 15 e i 25 euro, ma il corrispondente in franchi CFA diventa una cifra discreta. La chiesa parrocchiale non ha bisogno per il momento che si effettuino grandi lavori, cosa che permette di accumulare in un anno un capitale importante. Perché allora la chiesa-madre di Fianga non potrebbe decidere, a determinate condizioni, di aiutare le succursali sparse all’interno del suo territorio di campagna, che è piuttosto esteso? Sarà sufficiente convocare le diverse comunità all’unica celebrazione delle grandi feste, trascurando la reale articolazione, del resto già esistente, in settori che danno luogo a comunità di base? Un aiuto che viene dalla chiesa-madre toglierebbe dallo stallo diverse comunità, il cui entusiasmo si è inceppato dopo che è stata prodotta una certa quantità di mattoni per la costruzione della cappella. Questa solidarietà interna ed articolata non avrebbe nulla di assistenzialistico e potrebbe costituire una grossa spinta alle comunità di base, che hanno il fiato corto almeno dal punto di vista economico.

 

Ieri ho partecipato alla conferenza-dibattito presso il centro culturale della parrocchia sul tema della corruzione. A presentarlo c’erano un insegnante protestante e un ingegnere dei lavori pubblici di N’Djamena che occasionalmente si trova a Fianga e che è cattolico. E’ stata fatta lettura del documento di Natale dei vescovi. A me sembra interessante che un numero importante di giovani (150) di ogni credo religioso (cattolici, protestanti, musulmani, appartenenti alla religione tradizionale) abbiano ascoltato e poi discusso il documento. Credo che in pochi altri ambienti del Tchad ciò sia accaduto. Il centro culturale è sicuramente un luogo di riflessione aperto a tutti quelli che lo desiderano, permettendo alla parrocchia di fare un servizio alla città anche quando trasmette messaggi apparentemente solo confessionali.

 

24 gennaio

Ieri con Stefano sono andato a Touloum in Camerun, dove vivono da molti anni due padri del PIME. E’ una missione lontana appena 60 km da Fianga, le cui abitazioni sono costituite ancora da boukaroù, capanne molto simili a quelle della gente: ultime tracce di quella che era la classica missione africana. P. Mario da più di quarant’anni sta traducendo testi biblici e stimolando la creazione di canti liturgici, per permettere al popolo toupouri di sentirsi a suo agio nell’ascolto della Parola e nell’espressione della propria fede. Il contatto cordiale e amichevole con questi padri è sempre stimolante e addirittura sontuosa è l’accoglienza che essi offrono a chi va a visitarli.

Nella conversazione Stefano ha parlato dell’interesse che ha suscitato in lui e in me il racconto dell’esperienza di Tokombéré. I due amici l’hanno liquidata in poche parole: retorica! Queste affermazioni così decise non mettono granché in crisi né il mio entusiasmo per quello che rappresenta Tokombéré, né la mia profonda stima per questi due padri. A me pare di proiettare queste reazioni sullo sfondo di un’appassionata tensione tra quelli che interpretano e vivono l’Incarnazione come inculturazione e quelli che la vivono invece sul versante dei processi di liberazione. Anch’io sento questa tensione e le mie preferenze vanno verso quest’ultimo versante. Ma il pazientissimo lavoro di questi due padri mi svela anche la ricchezza di prospettive dell’inculturazione.

La visita ai padri del PIME è l’occasione per parlare dell’imminente riapertura di contatti e di collaborazione fra i preti di Treviso e quelli del PIME. Rinasce ora ciò che fu l’inizio della presenza in Africa della diocesi di Treviso. Cerco di capire le prospettive che si stanno aprendo.

 

26 gennaio. Pescatori chiamati sulla riva del lago

Ieri era la domenica della chiamata al seguito di Gesù di quattro pescatori. Il mio turno di messa prevedeva che io la celebrassi a Follmaye, che è un settore della brousse in riva al lago dove tutti sono pescatori. Una coincidenza formidabile che mi ha spinto a concentrare la riflessione sull’unico dato importante per questa gente: perché Gesù sceglie dei pescatori e non dei professori dell’università di N’Djamena? Secondariamente, era da domandarsi che cosa poteva significare per loro essere pescatori di uomini. Ho avuto una certa difficoltà a risalire a qualche persona concreta che avesse parlato loro di Gesù in maniera tale da far nascere il desiderio di seguirlo, ma ce l’abbiamo fatta quando, finalmente, mi hanno parlato di Marcel e Denis, che io non conosco.

Eravamo dentro una cappella di cui è tracciato il perimetro in cemento e... nient’altro. A copertura c’è una grande distesa di stuoie che ci permettono di celebrare all’ombra. Tutto il resto è organizzato come nella parrocchia madre di Fianga: accoliti impeccabili, corale in lingua, gruppo giovani, animatori, traduttori... è una realtà magnifica che mi ha entusiasmato. Per l’occasione disponevamo perfino di un giovane fotografo! Alla fine della messa, danza di tutta l’assemblea a quattro gruppi concentrici. Tam-tam, danze, polvere, battito cadenzato di mani, suoni e grida: la domenica è festa da queste parti.

 

Elaborazione del lutto o rivolta contro la morte?

Al mio ritorno, seduto non del tutto comodamente sul sellino posteriore di una moto, sono passato accanto alla proprietà di una famiglia che un’ora dopo ha perso il figlio ventenne malato di AIDS. Eravamo vicinissimi a casa. Durante tutto il pomeriggio sono stato inquietato da continue danze e grida di sgomento e di paura. I giovani colleghi “gurnah” del de -

funto hanno suonato in maniera lugubre il tam-tam mortuario, hanno gridato e danzato fino alle cinque del mattino. Mentre scrivo sento l’urlo di una donna (la mamma?) che probabilmente sente vicinissimo il momento in cui il corpo del figlio verrà calato nella fossa scavata all’interno stesso del recinto familiare. Nella stessa giornata non puoi essere totalmente felice da queste parti. Ma ho avvertito ancora una volta la rabbia per pratiche e costumi che conducono stupidamente alla morte.

 

La sera è movimentata da un attacco molto forte di calcoli renali a Giulio. Fabio (e chi se non lui?) è corso a chiamare il medico, che con suo comodo è comunque arrivato. E’ l’unico per tutto il distretto di Fjanga, una regione paragonabile al territorio di mezza provincia di Treviso. E’ stato chiamato due volte, perché Giulio soffriva terribilmente. Il medico al secondo tentativo ha trovato il giusto rimedio per calmare i dolori.

Il Tchad, con più di dieci milioni di abitanti, ha trecento medici. L’unica facoltà di medicina, con sede a N’Djamena, funziona a numero chiuso: trenta ingressi all’anno. Non ci si può arrabbiare con la gente se poi fa ricorso a stregoni e ciarlatani!

 

Quando Fabio è ritornato da Séré, gli ho raccontato del mio entusiasmo per la comunità di Follmaye, che mi ha strappato la promessa di offrire quindici sacchi di carbone (meno di cento euro) per cuocere tremila mattoni che uomini e giovani hanno promesso di fare. Simpaticamente mi ha risposto che sto rovinando la missione. Ma anche i bambini hanno i loro nonni!

 

26 gennaio. L’associazione dei portatori di handicap

Alle 16 in punto ero all’appuntamento con un gruppo di handicappati in ospedale. In questi anni hanno formato un’associazione che, come tutte, soffre di alti e bassi. Il presidente è un handicappato musulmano laureato a N’Djamena e che lavora nel settore amministrativo scolastico. L’Associazione si propone essenzialmente due obiettivi: avere un locale e assicurare agli handicappati un mestiere che li renda capaci di realizzare con i loro mezzi il progetto della propria vita. Gli obiettivi sono belli, ma come li si potrà raggiungere? Ho detto loro che dovrebbero mettersi d’accordo con il servizio handicap della diocesi di Pala. Mi pare che sia in arrivo un volontario che sostituisce il partente. Ho raccomandato loro soprattutto di tenersi in contatto con don Stefano, a cui penso di lasciare i fondi che ho ricevuto. Ero molto contento di vedere Sajiu camminare con l’apparecchio applicato alla gamba che non c’è più. Lo avevo aiutato nella visita precedente. Far camminare gli zoppi è un segno del Regno di Dio e della fecondità del Vangelo. Quando siamo usciti dall’ospedale mi sono trovato attorniato da una scorta singolare costituita da cinque handicappati. Una donna, sana e robusta, è venuta a dirci: “Anch’io sono handicappata...”. Per una volta, la loro situazione è stata considerata come privilegiata.

 

28 gennaio. Le due signorie

I giovani del “quartiere arabo” continuano a domandarmi incontri sulla Bibbia. Ieri abbiamo parlato della morte. Benché fosse giorno di mercato, quattordici vi parteciparono. Io continuo a leggere e a commentare la Parola di Dio. Gli argomenti sono fissati di volta in volta da loro. Le domande vertevano sul Paradiso, sul premio ai buoni, sul castigo a chi fa il male; sul Giudizio: se avviene subito dopo la morte o alla fine dei tempi (prospettiva musulmana); perché in Paradiso non c’è né uomo né donna e sulla inevitabile conseguenza per cui vengono sottratti i piaceri legati all’esercizio della sessualità.

Io ho impostato la riflessione sul tema della lotta (il duello) tra la signoria della vita propria a Gesù Cristo e la signoria della morte. Ho citato le forti espressioni che riguardano gli atteggiamenti di Gesù nei confronti della morte: pianto, angoscia, rifiuto, fremiti di rivolta... Occorre lottare contro la morte; occorre sconfiggerla, non rassegnarvisi. Ho parlato del ragazzo morto a vent’anni di AIDS. Non era troppo giovane e irresponsabile quando ha cominciato ad avere rapporti con donne? E poi, in ogni caso, perché non usare il preservativo? E una volta che si è visto malato, perché non ricorrere al medico e alle medicine, che ora finalmente sono gratuite? Perché rassegnarsi a morire così giovane? Facevo rilevare che da quattro giorni stanno facendo baccano, con grida, danze e tam-tam attorno alla sua tomba nel recinto di casa. Ma tutto questo a chi serve: a lui o non piuttosto a chi resta? Forse è anche per questo che Gesù è apparso infastidito dalle grida e dalla concitazione che aveva trovato nella casa della ragazza appena morta e si era rinchiuso nella stanza: lui di fronte a lei in un duello decisivo, dove era in gioco la sua signoria e l’esistenza personale di quell’adolescente. Il resto è elaborazione del lutto a beneficio di chi resta.

Non so cosa sia rimasto nella testa di quei giovani. Ma forse questo non riguarda solo me, ma la potenza della Parola di Dio.

Per la prossima volta mi hanno chiesto di parlare della sessualità secondo la Bibbia.

 

I ricordi di Fabio

Fabio ha voluto assistere alla partenza dal proprio villaggio di due coppie di Kiriou, che vanno a fare la formazione biennale a Gouyoù. Ha visto i vicini di casa piangere, mentre stavano caricando le loro poverissime cose sul camion: qualche sacco di miglio, due o tre cesti con i vestiti, qualche utensile da cucina e da lavoro. Un solo camion è sufficiente a traslocare gli averi di alcune famiglie. Io mi sono limitato a dire a Fabio di non perdere mai più il ricordo di queste immagini per tutto il resto della sua vita. E se la tenerezza di questi ricordi gli farà fare qualche sbaglio a beneficio dei poveri, al massimo riuscirà a strappare a Dio e... a noi un dolce sorriso! La lotta contro le cause della povertà resterà intatta, anzi potrebbe essere rafforzata da questo supplemento di umanità.

 

Questa mattina è morta in ospedale una giovane donna protestante. La notizia mi è stata riferita così: “E’ morta una giovane donna, figlia di un’infermiera. Non si sa di che cosa sia morta, ma almeno ha lasciato dei bambini”. In francese sarebbe “elle a donné”, ha dato dei figli. Mi si perdoni il paragone: una gatta è morta, ma in compenso ha lasciato diversi cuccioli. Ciò mi conferma che qui è una disgrazia nascere donna. Da un punto di vista religioso sogno un santuario a Maria, donna del riscatto, il cui fascino non sia determinato dai miracoli, ma dal Magnificat.

 

29 gennaio. L’imàm vicario

Stamattina sono passato dall’imàm accompagnato da Yaya. Stavo camminando sulla strada quando una moto guidata da Abacar, un mussei musulmano, si è fermata per offrirmi un passaggio. L’ho fatto fermare nei pressi della piccola banca locale per cambiare dei soldi e avere qualche moneta da dare al mio imprevisto tassista. Non l’avessi fatto: si è rifiutato categoricam ente di ricevere un centesimo. Ma perché mi succede così spesso di incontrare musulmani gentili? Non sarà che in Europa il clima è stato talmente avvelenato che non riusciamo neppure a mantenere rapporti normali tra di noi?

Ho proseguito la mia camminata e ho incontrato Justin, che lavora per un organismo di difesa dell’ambiente. Sta lavorando per un progetto di rimboschimento e mi ha dato appuntamento per martedì prossimo per farmi vedere una piantagione di dieci ettari di alberi da frutta: manghi, anacardi, guayava... Ho già avvertito Stefano nel caso volesse venire con noi. Con Yaya siamo entrati nella casa dell’imàm e ho subito chiesto se si poteva finalmente conoscere il suo vice. In attesa l’imàm ci ha fatto servire del riso, del capretto e del latte in polvere. Mangiando insieme, ci siamo accordati per la cena che sono solito offrire ad alcuni maggiorenti e amici musulmani qualche giorno prima della mia partenza. Finalmente il giovane vice è arrivato. Il suo ritardo era più che giustificato: oggi è il giorno dell’arrivo della moglie in casa, equivalente al giorno delle nozze per noi. Non solo è giustificato, ma si è mostrato anche troppo gentile nei miei confronti. Sta studiando a Maroua, dove frequenta il gran marabout. E’ sua intenzione proseguire gli studi in qualche università islamica dell’Arabia Saudita. Personalmente gli dicevo che c’erano anche altre università islamiche in Tunisia, in Marocco e soprattutto in Egitto. Ma l’Arabia Saudita condiziona i futuri responsabili dell’Islàm con le borse di studio. Gli ho fatto gli auguri per la famiglia che oggi comincia ad avere. Prima di lasciarci, io ho fatto una preghiera per lui e per la moglie e l’imàm ha fatto la sua preghiera dal Corano. Così questa nuova famiglia incomincia con la benedizione di Dio, invocata da un prete cattolico e da un imàm musulmano in casa di quest’ultimo. Dentro questo contesto non mi è sembrato irrilevante sottolineare il fatto che la moglie del vice si chiami Meriem (Maria), nome carissimo a cristiani e a musulmani. L’ho fatto notare anche ai presenti, ricordando la lunga sura del Corano dove si parla dell’Annunciazione a Maria. Nei nostri rapporti, è vero, c’è tanta cortesia, ma ormai mi pare si possa dire che non c’è solo cortesia. Alla fine l’imàm ha prestato a Yaya la sua moto perché mi riconducesse a casa.

 

30 gennaio. La Parola che cambia

Da ieri sera mi trovo a Tichém, che l’ultimo parroco tchadiano ha dovuto lasciare a causa di una disavventura accadutagli con una ragazza. Ho partecipato a una piccola riunione di un comitato parrocchiale che dovrebbe affrontare i problemi legati allo sviluppo, i temi di questa sera riguardavano i bambini denutriti; i pozzi e il granaio comunitario per mettere da parte una riserva di miglio se, come probabilmente accadrà dal mese di giugno, ci si troverà di fronte a una carestia. Il disimpegno del Belac (Caritas diocesana) verso questi programmi costringe le parrocchie (almeno quelle che vogliono) a farsene carico. Pur riconoscendo i vantaggi di un coordinamento diocesano, trovo utile la riappropriazione da parte della parrocchia dei programmi di sviluppo, per il semplice fatto che ciò permette di collegare l’annuncio della Parola con fatti e scelte che incidono sulla realtà locale. La Parola non può ridursi a puro annuncio. L’insegnamento di Gesù non stupisce i contemporanei perché è più brillante di quello dei rabbini del suo tempo; esso si distingue perché è fatto con autorità, cioè con potenza che cambia e che trasforma. Ben venga perciò la crisi dell’organismo diocesano preposto allo sviluppo e siano le comunità ad assumersi queste responsabilità. Resta l’interrogativo delle parrocchie che hanno preti locali o comunque africani. Dove troveranno le risorse per accompagnare i progetti di sviluppo?

Paolo -che questa sera ho ricordato alla conclusione dell’incontro- non era di Gerusalemme ed è andato fino in Macedonia a chiedere solidarietà per la chiesa di Gerusalemme ridotta alla fame. Baba Simòn, il santo prete camerunese, che camminava scalzo, girava per l’Europa con la sua tunica lisa per dare da mangiare ai quattrocento alunni della scuola che aveva creato. Io sogno una rete di solidarietà intercomunitaria attraverso la quale ci si aiuta insieme; si esercita una reciproca vigilanza critica perché i poveri restino al primo posto anche in Occidente e niente di quello che a loro è destinato venga loro sottratto, anche in Africa.

 

2 febbraio. Per leggere il Vangelo occorre situarsi

Sono le cinque del mattino e mi trovo occupato a leggere e a meditare il commento della Comunità di Bose sul Vangelo di domenica prossima, che racconta la guarigione della suocera di Pietro. C’è una parte che mi fa proprio arrabbiare: “Gesù si rifiuta di divenire una fonte di prestazioni terapeutiche e sa anche sottrarsi alle richieste che vengono dalla gente. I gesti che egli compie sono sacramentali... nella misura in cui egli vive la sua missione non tanto cercando di soddisfare i bisogni di coloro a cui è inviato, quanto nutrendo la relazione con Colui che l’ha inviato.” Mentre medito, prego, scrivo e... m’inquieto, sento le urla provenienti da una casa vicina dove questa notte sicuramente qualcuno è morto. Dio si troverà vicino a me, che sono in silenzio e in preghiera, o sarà lì accanto a quel cadavere e a quella gente? Io credo che se non riusciamo a capire l’unità vissuta da Gesù tra questi due momenti, corriamo il rischio di mettere acqua nel vino del Vangelo e a snaturarlo come sta succedendo in Occidente. Io temo che le nostre “spiritualizzazioni” del Vangelo siano frutto della distanza sempre più ampia che ci separa dai poveri del mondo. C’è ancora molta strada da fare per capire l’unità dei due comandamenti. Io spero che Dio ascolti anche la mia preghiera fatta di silenzio, di quiete, di benessere fisico e spirituale, ma sono assolutamente certo che sta ascoltando l’urlo dei piangenti che si trovano a qualche centinaio di metri dalla nostra casa. Se non fosse così, che Dio sarebbe? “...ha occhi ma non vede; ha orecchi ma non sente; ha cuore ma non freme...”: ma questo è l’idolo di chi ha messo al sicuro tutti i suoi averi (o almeno crede di averlo fatto).

 

Con il presidente (musulmano) e il segretario (protestante) dell’Associazione degli Handicappati di Fianga sono andato dal sindaco per chiedere che un vecchio magazzino coloniale, ora appartenente al Ministero dell’agricoltura, venga assegnato “pro tempore” all’Associazione. La ragione per cui mi hanno invitato ad andare insieme con loro è evidente: un bianco e per giunta un prete che li accompagna non può che rialzare le loro “azioni”, senza dire che anche questo è un mezzo per coinvolgermi. Se ho scelto di aiutare i portatori di handicap è perché in una società in cui la preoccupazione più generale è la sopravvivenza non resta molto spazio a chi già di suo non è attrezzato per vincere questa gara. Credo inoltre che, nonostante tutto, l’associazione sia una realtà importante da indicare e da sostenere. Se alla fine perdo 250 euro non avrò molti scrupoli, dal momento che qualsiasi giubbotto di uno dei nostri ragazzi rasenta o supera (a volte anche di molto) questa somma. Dopo la visita al sindaco sono andato al centro handicappati e all’ospedale. Nel primo ho dovuto liberarmi di una persona importuna che sfrontatamente chiedeva soldi.

La mia visita all’ospedale è stata invece molto utile. Ho trovato un bambino ammalato di malaria, ma che aveva una malformazione congenita al piede perfettamente operabile. I genitori non ci avevano pensato. Ho immediatamente segnalato il caso a Pascal, che se ne occuperà. Se una sola visita può avere una qualche utilità per tutta la vita di una persona, cosa non accadrebbe se potessimo renderci presenti a tutti!

Ho visitato il lazzaretto, che continua a essere spopolato. Non è un male se gli ammalati di TBC e di AIDS riescono a curarsi in casa con le medicine distribuite gratuitamente dall’ospedale.

 

Al pomeriggio con Fabio sono andato a trovare Gabriel, l’handicappato grave che è la fotografia al vivo del protagonista del carme del Servo di Yaweh: “ha l’aspetto di un verme, non di un uomo”. Mi si è avvicinato per abbracciarmi e per baciarmi; devo dire che ho avuto un momento di esitazione. In alcuni minuti sei o sette donne si sono sedute attorno a lui e a noi. Nessuno di loro sapeva il francese. Siamo rimasti lì finché il sentimento di disagio sempre più forte ci ha convinti ad andarcene.

Volevo trovare Rigobert per fargli acquistare due capre per Gabriel, cosa che non deve venire a conoscenza del fratello perché potrebbe appropriarsene e venderle. La comunità cristiana, all’insaputa di questi, sta già allevando un paio di capre di proprietà di Gabriel. Sulla strada del ritorno siamo rimasti in silenzio e sono stato assalito dall’impressione dell’inutilità di qualsiasi tentativo di cambiamento. La frequentazione di certi luoghi rischia di far morire la speranza.

 

4 febbraio

Il bambino di Mambàlam è guarito dalla malaria e il papà ha già preso accordi con Pascal per l’operazione al piede. Se tutto va bene come previsto, a maggio potrà camminare con il suo piede dritto. Il papà è disposto a mettere una cifra consistente e io lo aiuterò per il resto. Per una volta si può dire: benedetto l’attacco di malaria.

La ragazzina camerunese di dodici anni che non sorride mai da quattro giorni non mangia più, anche se le sue gambe sembrano rafforzarsi al punto che ha incominciato a faredei piccoli tratti con le stampelle. A volte mi dà l’impressione che sia ammalata di mal di vivere. Ha due splendidi genitori che la seguono con accortezza e affetto. Speriamo che riescano a restituirle la gioia di vivere. Ho chiesto al papà di accompagnarmi a far visita al pope e alla chiesa ortodossa, nel quartiere di Gon Gon. Abbiamo trovato “il cappellano”, che purtroppo ci ha riferito che il Patriarca ortodosso di Alessandria arriverà il 16 febbraio, cioè il giorno dopo la mia partenza da Fianga. Nella bella chiesa che ho visitato mi sono soffermato con interesse davanti all’iconostasi e mi sono fatto spiegare il rito della “santa liturgia” di San Giovanni Crisostomo, che essi seguono.

Nella piccola cittadina di Fianga, oltre alle diverse cappelle delle chiese protestanti dove ogni domenica si annuncia la Parola di Dio, da più di un anno esiste anche la chiesa ortodossa con duecento fedeli che celebrano l’Eucarestia. Questo probabilmente richiederebbe qualche iniziativa di carattere ecumenico, in modo che la Parola e l’Eucarestia non diventino semplicemente una non dichiarata occasione di competizione. Il cappellano mi ha molto ringraziato della visita e mi ha accompagnato per un tratto di strada.

 

I mezzi di uno studente di Fianga

Eliseo è uno studente che sta preparando la maturità. Insieme con altri cinque studenti ha la possibilità di usufruire di due ore di luce elettrica nella missione, oltre che di gessi e di una lavagna. I mezzi di cui questi studenti dispongono sono a dir poco rudimentali: uno o due quaderni e una penna. Alla sera, quando vengono alla missione, si fanno scuola l’uno con l’altro seguendo i pochi appunti che hanno sul quaderno... e la loro memoria! Con queste risorse fanno esercizi alla lavagna e discutono animatamente tra di loro. Più volte ho parlato con loro, confermando a me e a loro che la distanza che li separa da uno studente europeo non è data dall’intelligenza, ma dai mezzi di cui dispongono. Eliseo, che quest’anno deve affrontare la maturità, è il maggiore di cinque fratelli e la madre è vedova. Per mantenersi agli studi ha fatto il coltivatore di campi in Nigeria durante la stagione estiva. I pochi soldi che è riuscito a mettere da parte se ne sono andati perché la mamma si è ammalata. Oltre alle spese sostenute per le medicine, egli ha dovuto mettere in conto anche il sostentamento e la scuola dei fratelli minori, perché la mamma per un lungo periodo non era più in grado di vendere qualcosa al mercato. Man mano che Eliseo continuava a raccontare e intrecciava il suo discorso insieme con quello molto simile di un altro giovane della sua età, affondavo in una tristezza paralizzante. Questi ragazzi non dispongono ancora dei dieci euro che sono necessari per iscriversi all’esame di maturità.

 

5 febbraio. Sfogliando i libri sapienziali

Ieri sono stato a Follmaye, una bella comunità della brousse dove avevo celebrato una messa domenicale. I giovani mi avevano chiesto una conversazione sul problema del consumo di bevande alcoliche. Quando mi viene fatto questo tipo di richieste, non mi tiro indietro. Così ho ingaggiato il “clandoman” (tassista in moto) che alle 14.30, sotto un sole che cuoce i mattoni, mi ha portato per una strada tutta buche e sabbia verso quella comunità. Niente male per i miei 65 anni! Naturalmente ho dovuto attendere un’ora e mezza prima che arrivassero i giovani. Yaya, molto pazientemente, ha aspettato durante tutto questo tempo.

Il punto di vista della Bibbia sulla bibita alcolica non è totalmente negativo, perché ”il vino che allegra il cuore dell’uomo” è necessario per la festa. E questa è una prima sorpresa: distinguere l’uso intelligente e moderato dall’eccesso non era cosa a cui si sentivano preparati. Avrebbero forse preferito sentirsi dire che l’alcol è peccato, pur sapendo perfetta-mente che la trasgressione è pratica comune e tradizionale. Introdurre il discorso dell’autocontrollo, della moderazione e del dominio di se stessi è molto più impegnativo, non solo nell’uso dell’alcol, ma anche nella pratica delle relazioni sessuali. La Bibbia nei libri del Siracide e dei Proverbi è piena di questa saggezza ed educa alla responsabilità. Ancora una volta ho potuto costatare che il ricorso ai libri sapienziali in Africa è prezioso. Disgraziatamente ho esaurito le scorte di Bibbie in francese che c’erano a Pala. Ne ho potuto comprare solo una ventina. Avendo visto con i miei occhi i giovani protestanti consultare e usare la Bibbia come uno strumento familiare, sarei disposto a spendere qualsiasi cifra pur di darla in mano ai giovani, soprattutto studenti, dietro versamento di un piccolo tributo. Ai contadini, invece, come è mia convinzione, accanto a una Bibbia aggiungerei un asino, nonostante la simpatica e amichevolissima opposizione di Fabio, a cui ho “crudelmente” consegnato i soldi perché sia lui stesso a distribuirli a Gouyoù per comprare degli asini.

Molto efficace è stata anche la presentazione di Noè, splendida figura della Bibbia. che per primo si dedicò alla coltivazione della vigna e che fu vittima della prima disavventura da ubriaco. Ai ragazzi non è stato difficile spiegare la vergogna prodotta da questi eccessi. Essi, però, mi hanno presentato due serie obiezioni. La prima è relativa al peso della tradizione. Quando muore qualcuno la gente si sente in obbligo di offrire e consumare fino all’eccesso una specie di birra fatta in casa. E la seconda viene dalla pratica delle mamme, che per sbarcare il lunario e mantenere i figli a scuola producono e vendono questa birra di miglio.

E’ difficile rispondere a queste obiezioni. Io ho richiamato comunque il dovere per il cristiano della diversità, e quindi della moderazione. Ai giovani studenti, poi, ho detto che possono trovare risorse dalla pesca (siamo sulle sponde di un lago) o dall’allevamento di faraone, che non hanno molto bisogno di miglio, o di anatre. Ho citato anche il caso di un giovane di qui che alleva conigli. Qualche cosa di diverso bisogna pure inventare!

Ho appena dato a Rigobert 20.000 franchi (pari a 30 euro) perché compri due capre per Gabriel, l’handicappato grave che in occasione della morte del fratello ha dovuto sacrificare quattro delle sette capre che aveva. Rigobert è responsabile della comunità cristiana e Gabriel ha affidato a lui la gestione del suo attuale patrimonio (sic!) per evitare che il fratello maggiore gli porti via tutto. Rigobert è un povero cristiano a cui qualche giorno fa hanno portato via dal campo il miglio maturo. Con l’asino che gli ho regalato tre anni fa ha potuto piantare mezzo ettaro di manioca, che è già alta cinquanta cm... Bibbia e asino per migliorare la vita! Sono contento di questo miglioramento, ma soprattutto mi ha fatto ancora più contento la sua espressione nel momento di andarsene: “Bisogna che noi cristiani aiutiamo i poveri!” Detto da un povero ha un enorme valore.

 

6 febbraio. Lampada ai nostri passi

Don Stefano in missione tra i bambiniPer la quarta settimana successiva ho incontrato i giovani del quartiere arabo, seduti sulla stuoia del cortile di casa di Jérome, con la Bibbia in mano. Avevo messo a loro disposizione dieci Bibbie, che ho rivenduto a prezzo stracciatissimo, cioè a 700 CFA (1 euro). Per noi non è niente, per uno studente di qua è già qualcosa. Già nel primo giorno di vendita erano state esaurite. Io credo che la Bibbia susciti in loro un grande fascino. Non mi pare che venga attualmente capita per quello che essa è, cioè come la grande storia dell’incontro di Dio con l’uomo, ma più semplicemente come “lampada ai nostri passi”. Sono i consigli e l’orientamento morale che per il momento sono direttamente percepiti e, direi, almeno emotivamente accolti. Quale approccio sarà il più efficace in questo contesto culturale? L’approccio del salmo 118 (119) o quello del racconto dell’Alleanza nel libro dell’Esodo? Non si tratta di privilegiare l’uno rispetto all’altro; si tratta di sapere da dove incominciare.

Il tema richiesto ieri riguardava la sessualità nella Bibbia. Ho letto i due racconti della creazione dell’uomo e della donna. Ho tentato di spiegare il grido di gioia di Adamo perché aveva finalmente trovato un essere simile a lui e non semplicemente una femmina con cui soddisfare i suoi bisogni di maschio. Passare dalla prospettiva fisica alla prospettiva relazionale non è del tutto scontato per giovani maschi, abituati forse a parlare molto di bisogni sessuali e poco di amore.

Un altro problema che è uscito dalle domande è l’uguaglianza dell’uomo e della donna. Un ragazzo lo ha espresso con estrema chiarezza e facendo riferimento a una pretesa parola biblica: “L’uomo è stato creato a immagine di Dio, la donna a immagine dell’uomo.” Se fosse così, la gerarchia sarebbe salva! Per fortuna il primo racconto della creazione parla dell’essere umano-immagine di Dio, che è uomo e donna insieme. Se è ben capito è un testo molto ispirato, ma entra in collisione con una cultura che pretenderebbe che “la donna sia creata a immagine dell’uomo”, mentre solo questi è “immagine di Dio”.

Un altro oggetto di riflessione è l’eccessivo rilievo dato alla trasgressione sessuale. E’ ben vero che la pratica è molto libera, ma ciò non toglie che il giudizio morale sui comportamenti sessuali sia rigorosamente negativo. Si potrebbe istituire un parallelo con l’alcolismo. Se chiedi ai giovani un giudizio sulla bevanda alcolica ti danno una risposta immediatamente negativa anche se l’uso e l’abuso di essa sono pressoché universali. Allora mi sono permesso di fare la lista di altri “peccati gravi”: la corruzione, la deresponsabilizzazione del padre nei confronti dei figli, i ferimenti e le aggressioni, l’assassinio... Liberare la testa dall’esclusiva del sesso mi sembrerebbe un buon servizio.

 

7 febbraio. L’incontro che va oltre la cortesia

Ieri sera abbiamo realizzato con alcuni responsabili musulmani di Fianga l’incontro che siamo soliti fare verso la fine del mio soggiorno. E’ un impegno che rientra nel mio servizio alla chiesa di Treviso, compresa quella parte di chiesa che si trova in missione “ad gentes”. I rapporti con i responsabili musulmani di Fianga si è venuto consolidando, anche se tra loro si sta lentamente attuando una specie di ricambio generazionale.

Nell’incontro di ieri sera sono state introdotte alcune significative novità. A rappresentare la chiesa locale non c’eravamo soltanto noi preti missionari stranieri, ma anche tre cristiani locali: uno anziano, uno di mezza età, uno giovane. Ieri sera è stata introdotta una seconda novità importante. Prima della cena ci siamo riuniti nel cortile di casa, seduti in cerchio su delle panchine. Ho presentato brevemente il documento sottoscritto in Vaticano il 6 novembre fra rappresentanti della chiesa cattolica e rappresentanti del mondo musulmano.

Il tentativo è di inserire la piccola bella storia di relazioni amichevoli di Fianga nella grande storia del tempo presente. Giulio, che è il più interessato a tessere i fili di queste relazioni con i musulmani, aveva trovato su Internet il testo in francese del documento finale e ne aveva fatto varie fotocopie, che furono distribuite a tutti i presenti. Questa prima parte dell’incontro svolta nel cortile si concluse con la preghiera dei cristiani e dei musulmani per la pace nel Tchad. Naturalmente prima della preghiera l’imàm aveva rivolto un discorso di ringraziamento, senza omettere il ricordo dei padri che erano passati per Fianga nel segno dell’amicizia con i musulmani.

Si passò quindi nella sala da pranzo, dove era stata preparata una cena a base del capretto che Fenga, l’handicappato, aveva regalato e che Martin e Isac avevano cucinato e servito in maniera impeccabile. Anche nella sala da pranzo si è notata una certa novità rispetto agli incontri precedenti. Il clima del primo incontro era risultato piuttosto ingessato e quasi intimorito, specialmente tra gli ospiti musulmani, che per la prima volta venivano in missione a condividere una cena insieme a dei preti. Questa volta invece, anche per le felici battute di Fabio, il clima era molto disteso e cordiale. Alla fine della cena ci fu un nuovo momento di riflessione. Io ho richiamato la figura biblica e coranica di Giuseppe, il sognatore. Bisogna attraversare il sogno per andare oltre una realtà che sembra opaca e conflittuale: “una serata come questa ci permette di sognare un mondo diverso...”.

Giulio ha richiamato l’immagine evangelica del festino di tutti i popoli di cui la nostra cena poteva essere una icona e l’imàm ha concluso con un proverbio fulbé che cerco di riferire. “L’amicizia non passa attraverso gli occhi, ma corre sui piedi”. La spiegazione potrebbe essere la seguente: l’incontro tra persone non è frutto degli occhi che guardano e passano oltre. Esso avviene nel momento in cui decidi di muoverti e di andare incontro all’altro: solo allora manifesti il desiderio e la volontà di legarti a lui in amicizia.

Mi affascina la maniera degli africani di parlare attraverso simboli concreti, ma che alludono a discorsi alti e aperti non a uno, ma a molti sensi.

 

Ci sono i tagliatori di teste, ci sono i pericolosissimi tagliatori di strada e ci sono i tagliatori... di fronde. Fabio appartiene a quest’ultima categoria, con la mia netta quanto inutile opposizione.

Gli alberi di nimier stanno rinverdendo questo ormai spoglio paesaggio e stanno creando delle zone d’ombra in questa terra bruciata dal sole. Di tanto in tanto occorre tagliare i rami sia per il fabbisogno casalingo che per irrobustire il tronco. Fabio si è talmente investito della missione di “feroce” tagliatore che la splendida ombra del viale della chiesa che teneva al riparo dal sole le teste dei catecumeni ora non c’è più, almeno per questa e forse anche per la prossima stagione. Questa “ferocia planticida” si è abbattuta anche a Séré, che per quest’anno e anche per il prossimo mancherà del gioco degli spazi creati dall’ombra e dal sole. Ma a Fabio si può perdonare molto, perché nessuno come lui si preoccupa della casa, degli spazi e dell’accoglienza ai visitatori che vengono in missione.

Ahimè! Ho scoperto che anche Giulio e imbevuto della stessa “vis”planticida!

 

Il Vangelo nella calebasse

Ieri ho celebrato splendidamente a Séré, che è una comunità integralmente toupouri. La celebrazione, durata almeno due ore, è corsa via liscia perché letture e traduzioni avvengono solo in due lingue: francese e toupouri. Accogliendo l’assemblea all’esterno delle porte (si fa per dire) della chiesa (se così si può chiamare), avevo preavvertito i cristiani che il Vangelo del giorno richiedeva una particolare attenzione, perché si trattava di conoscere un’intera giornata della vita di Gesù: dal mattino del sabato, giorno di festa, al mattino del giorno seguente. La gente cantava e si muoveva ritmicamente con particolare intensità: tutti cantavano e danzavano, alternando il clima festoso con profondi silenzi. Il Vangelo venne portato dall’esterno, da un uomo e una donna, dentro uno strumento quotidiano della vita toupouri, la calebasse, che serve soprattutto da recipiente per l’acqua e il miglio: Vangelo alimento e acqua che dà vita, portato da una donna sulla testa, consegnato dall’uomo al lettore e accolto da tutta la gente in piedi tra canti, danze e grida di gioia.

La spiegazione del Vangelo è stata lunga ed è andata avanti a piccoli passi, con la lentezza che occorre per capire e interiorizzare la giornata di Gesù, da mattino a mattino, da preghiera a preghiera... passando attraverso le guarigioni del giorno e della notte, con riferimenti molto concreti alla vita della gente e alla novità dei comportamenti del cristiano. Spiegando la preghiera di Gesù ho trovato modo di ricordare la preghiera di Joseph, “il santo bevitore”, la cui moglie era presente. Naturalmente c’era anche Laurent, suo fratello, che alla morte di lui l’ha presa come sua seconda moglie. E’ stata una messa splendida, che ha occupato tutta la mattinata del giorno del Signore ed è durata quanto doveva durare, cioè tutto il tempo necessario perché il Vangelo diventasse occasione di conoscere Gesù, di riflettere, di pregare e di fare dei confronti con la vita di un popolo che solo di recente (da cinquant’anni) ha conosciuto il Vangelo.

Alla fine della messa nel presbiterio ho salutato e ringraziato Laurent, il bravissimo animatore dei canti diventato poligamo. Mi sono ricordato che uno dei suoi figli è ammalato di TBC ossea e dovrà andare a fare un’operazione alla gamba perché ha una piaga che non si chiude. Gli ho dato 5000 CFA per il viaggio di questo ragazzo e, continuando il discorso dell’altra volta, gli ho manifestato la mia speranza che egli possa regolarizzare la sua situazione. Con gli occhi bassi mi ha detto:”Vedrà che un giorno il padre le racconterà che mi sono messo a posto”.

“Si fa più festa in cielo per un peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno di penitenza”.

Eppure non è stato questo il punto culminante della mia esperienza di fede in questa domenica benedetta. A mezzogiorno, quando il sole batteva forte, sono stato invitato da suor Anne Marie a partecipare alla riunione di un gruppo di donne che in questi anni, insieme con Marco e Francesca, abbiamo cercato di aiutare. Si trovavano riunite sotto un grazioso bungalow e mi hanno subito fatto posto. Jean Baptiste è il loro animatore-responsabile. Sono tutte vedove di uomini morti di AIDS; molto giovani e con figli a carico: da due a cinque. L’aspetto era fiorente; con le medicine e gli aiuti forniti avevano recuperato peso e bellezza. Tra i loro figli, qualcuno è ammalato di AIDS. Di fronte a Jean Baptiste, che era seduto per terra e aveva dei fogli in mano, c’era un mucchietto di soldi da 500 e da 1000 franchi CFA, compresi molti spiccioli in metallo da 100 CFA. Queste donne, intercettate da Suor Anne Marie attraverso un uomo di mezza età, malato di AIDS ma per fortuna curato in tempo, e che è diventato il missionario della certezza che di AIDS si può anche non morire, partecipano al mattino della domenica alla messa e poi assistono alla riunione domenicale del loro gruppo.

Hanno ricevuto dalla suora 25000 CFA (40 euro!) ciascuna e con quelli lavorano per fare dei modesti prodotti da vendere al mercato. Ciò dà loro i mezzi necessari per vivere e mantenere a scuola i loro figli. Di domenica in domenica restituiscono il credito ricevuto fino ad estinguerlo. Conoscevo per averlo letto nei libri e averne parlato spesso con molti amici il sistema di finanziamento del microcredito, proposto da Yunus, il banchiere dei poveri. Ma da ieri quella per me non è più solo una geniale intuizione, ma una realtà praticata soprattutto da donne e, in questo caso, perfino ammalate. La precedente celebrazione festiva della messa e il fatto che tutto ciò accadesse di domenica, giorno del Signore, mi hanno indotto a riflettere non solo sulla genialità dell’intuizione, ma anche sullo spessore evangelico di questa esperienza realizzata a Séré. Il rifiorire fisico di queste donne, i loro bambini a cui non è venuto a mancare quel poco che tutti hanno, il senso di responsabilità di queste donne motivate ora a vivere perché la speranza è possibile ed è concreta per sé e per i loro figli, l’aver trovato attraverso la loro personale e familiare Via Crucis la strada che le conduce alla comunità che legge il Vangelo ogni domenica e che celebra l’Eucarestia, mi hanno fatto capire lo spessore umano e divino della via religiosa che è stata aperta, nella sua carne, da Gesù di Nazareth. Oggi faremo il ritiro spirituale: francamente, dopo una giornata come ieri, non ne sento il bisogno, anche se evidentemente vi parteciperò.

Il ritorno a casa nell’auto di suor Anne Marie mi ha dato la possibilità di fare una nuova esperienza nella mia vita: il cambio di un pneumatico con un clic assolutamente maldestro. La suora, stendendosi per terra, lo ha collocato, io ho fatto il resto. Erano le tre del pomeriggio di una giornata caldissima: la vita missionaria è fatta anche di buchi nella gomma.

Arrivati a casa, abbiamo trovato due sorprese: un nuovo attacco di malaria a Fabio e l’arrivo del monaco benedettino di Fianga. Veramente una giornata da non perdere.

 

10 febbraio. Piccole vittime

Il bambino di Mambàlam, contrariamente a quello che mi sembrava nella visita precedente, è guarito dall’attacco di malaria perniciosa, ma questa gli ha lasciato come conseguenza una paralisi degli arti inferiori. Per l’AIDS le medicine sono state trovate, ma per la malaria siamo ancora nel mezzo della tempesta. Una mamma conduce il suo bambino di due anni a fare riabilitazione nel centro handicap: in seguito alla malaria non regge più la testa e dà un unico segno di reazione schioccando continuamente la lingua. Quasi certamente ha avuto una lesione cerebrale. Dal centro handicap sono passato al settore infettivi. Oggi ho trovato un nuovo ospite: un ragazzo di nove anni distrutto dalla tubercolosi. Ha una grossa ghiandola purulenta al collo e un corpo scheletrito dalla devastazione della malattia a cui si è concesso troppo tempo. Il ragazzo viene dalla brousse. E’ stato “curato” dall’infermiere locale. Quando questi finalmente si è accorto che il caso non era per lui, lo si è portato in ospedale, dove dopo una settimana si è scoperta la malattia che probabilmente poteva essere diagnosticata a occhio nudo. Ho deciso di acquistargli qualche barattolo di latte in polvere, anche se il padre non lo merita.

Per tutti gli altri reparti passo oltre, rapidamente, facendo finta di non vedere.

Nel pomeriggio i ragazzi cristiani e i ragazzi musulmani sono arrivati abbastanza puntuali nel centro culturale per l’appuntamento previsto. Li ho salutati; ho indicato loro possibili sviluppi e azioni di collaborazione che li potrebbero trovare uniti e ho raccomandato di organizzare un piccolo comitato formato da giovani cristiani e musulmani per realizzare gli obiettivi che si sono proposti. Trattandosi di giovani, ne ho parlato a Stefano.

 

11 febbraio. Il monaco benedettino

Oggi è una giornata di vero harmattan. Pare di essere in Val Padana in un giorno di nebbia. La nebbia non è però formata da vapore acqueo, bensì da polvere sottilissima e penetrante. La soddisfazione per la frescura è mitigata perciò dal fastidio della polvere.

Da domenica vive con noi il monaco benedettino che farà la sua professione solenne il 15 di agosto. Mi scocciano un po’ i suoi frequenti cambi di abito e di indumenti. Ma per il resto è un giovane monaco che manifesta gioia interiore e una sua convinzione. “Non è né la vita di fraternità né la bellezza della liturgia ciò che motiva la nostra scelta. Alla fine è solo Dio, è solo Gesù Cristo...” Mi sembra che proprio ci siamo!

A colazione ci ha parlato dei diversi incidenti che capitano nel monastero dove si sta formando (Burkina): “A volte ci si prende a botte a colpi di bastone in mezzo ai campi...”; altre volte pesa il fatto che per avere 2000 CFA (3 euro) occorra seguire “tutta una lunga liturgia”... Problemi che sicuramente nascono da un contesto di recente evangelizzazione e dal difficile e non scontato innesto del cristianesimo nelle culture locali. Ma il monastero è una struttura, un sistema di vita che aiuta a riassorbire, a perdonare, a sperimentare forme diverse di risoluzione di conflitti. Sono proprio convinto che i monasteri saranno in grado di operare una vera inculturazione del Vangelo nella vita di questa gente.

Oggi sono andato in ospedale con il monaco. Tra le quattro tenute a sua disposizione ha scelto quella color caffè. La visita si è prolungata oltre ogni mia aspettativa. Sono ripassato da Elisée, soggetto a un grave attacco di malaria. Avevo parlato con lui qualche giorno fa. Per mantenersi agli studi aveva fatto la stagione in Nigeria. Aveva speso tutto per ragioni familiari. L’attacco di malaria perniciosa poteva avere terribili conseguenze, ma per fortuna l’hanno portato in ospedale. Prima di entrarci mi ha mandato due righe: “Padre, non voglio morire. Mi aiuti.” Attraverso il fratello gli ho mandato qualcosa di meno di 10 euro.

Sono andato a trovare la ragazza di Tichém: febbre tifoidea. Il fratello mi aveva invitato a pregare su di lei. Ho rivisto Fenga, che mi ha offerto un altro pollo; la bambina camerunese, che oggi finalmente mi ha sorriso; il bambino che schiocca la lingua e non regge la testa; l’anziano malato di tubercolosi che va meglio e mi ringrazia per le arachidi e i fagioli; il bambino di nove anni che ha un enorme ganglio al collo, i polmoni malati e le gambe scheletrite. Oltre alle arachidi e ai fagioli, a lui faccio avere del latte. Il buon Pascal mi ha condotto da una donna del suo quartiere assolutamente sola e non sposata. E’ infetta a un piede, che non guarisce perché probabilmente è malata di diabete. Il bambino di Mambalàm piangeva rumorosamente perché non voleva lavarsi. Due anziani, uno che crede di star morendo avendo accanto a sé una giovane ragazza ammalata di diabete (anche in prossimità della morte il pensiero della ragazza non lo lascia) e l’altro, a cui avevo passato le mie pastiglie per la prostata e che invece sembra ristabilirsi.

 

Al mio ritorno a casa ho trovato un giovane handicappato che mi stava aspettando. Per oggi potrebbe bastare.

 

14 febbraio. 90 km per dire grazie

Stamattina sono andato all’ospedale per salutare per l’ultima volta alcuni amici.

Fenga -”mon ami”- che in questi mesi mi ha dato materialmente più di quanto egli avesse da me ricevuto; il bambino che non regge la testa e che schiocca la lingua; la ragazzina che oggi finalmente mi ha detto “bonjour”.

Sono andato al lazzaretto per salutare il vecchio e il ragazzo con la sua grande ghiandola al collo. Ma da ieri il papà sconsideratamente l’ha riportato in brousse. Forse ha pensato che sia un figlio a perdere. Questo mi ha irritato moltissimo. Volevo comprargli alcuni barattoli di latte in polvere. Jérome è venuto a salutare.

Ma il vero episodio della giornata è stata la visita di Jean Fidel, uno che aveva frequentato il biennio di Gouyou. Ha fatto 45 km di brousse in bicicletta. E’ partito alle quattro del mattino con un pollo al manubrio, perché sapeva che domani non mi avrebbe trovato. Ha perso due figli in tre anni e quindi anche una grossa parte di miglio a causa delle celebrazioni dei funerali. Ma non è un vinto, non si è perso d’animo. “Non sono né il primo né l’unico a cui succede questo.” Il pollo che mi ha portato è misero e magro come il suo padrone, ma aggiunto ai 90 km di strada per l’andata e il ritorno ha un valore immenso. Abbiamo bevuto insieme due bicchieri di acqua fresca e poi si è messo, soddisfatto, sulla via del ritorno.

90 km di strada per dire grazie per una Bibbia e per un asino dato tre anni fa e che gli è stato rubato quasi subito!

Il vecchio e saggio Mamadoù ha voluto farmi visita a casa prima della mia partenza. E’ un musulmano convinto, religioso e aperto a tutte le altre religioni, specialmente a quella cattolica. Mi ha parlato a lungo della reazione che molta gente ha avuto in seguito al mio intervento nella chiesa di Fianga a proposito dei “ladri di sesso”. In effetti è stato lui a ispirarmelo nei giorni precedenti. A quanto mi dice, è stato accolto molto favorevolmente da tutti e avrebbe contribuito, sempre secondo la sua opinione, a superare quel problema che rischiava di diventare serio. Vero o no che sia, è simpatico e rivelativo che un musulmano venga a parlare e a fare una valutazione su quanto si dice e si fa in chiesa.

Mamadoù mi ha parlato a lungo anche della situazione di attuale divisione che esisterebbe nelle moschee (sei) di Fianga e ne attribuisce la responsabilità all’imàm, che essendo giovane non domanda consiglio agli anziani e si circonda di giovani. Qualche errore di comunicazione, comunque, deve essere stato fatto.

Invece André, membro del comitato per le attività del centro giovanile, mi ha informato che è stato costituito un piccolo comitato per stabilire relazioni più cordiali tra i giovani cristiani e i giovani musulmani. E’ un’iniziativa che non può non rendermi soddisfatto alla vigilia della mia partenza.

Se la missione continuasse ad avere un pollaio, in questi giorni vi avremmo dato un grande incremento con polli e galline che mi sono state offerti da varie persone in segno di riconoscenza. Sono in genere scheletrite come le persone che me le vengono a offrire, e ciò aumenta il disagio di riceverle. Ma il dono del povero non si può rifiutare perché... ”hanno dato quel che potevano” e forse, a mio giudizio, anche di più.

Essere oggetto della generosità dei poveri diventa molto impegnativo.

 

16 febbraio. I ricchi di N’Djamena

A N’Djamena ho ritrovato alcuni dei miei amici: Alfred, Théophile, Eric, Cristophe, Ali...

La banca dove lavora Alfred in un alto posto di responsabilità gli permette ora di usare una grossa vettura. La stessa cosa si può dire di Eric, che fa il pilota civile per la compagnia Tumai. Gli studenti che erano in Tunisia e che sono ritornati al loro paese hanno probabilmente fatto più fortuna di coloro che sono emigrati verso i paesi del Nord del mondo.

Don Stefano in missione durante una celebrazioneAli continua a lavorare come buttafuori e cuoco nella casa di prostituzione. Nel frattempo si è sposato; ha due figli e si sta facendo una casa di fango nel centro di N’Djamena, in una di quelle immonde viuzze dove sembra impossibile poter vivere.

Théophile continua a lavorare, anche se con un salario modesto, nei campi profughi del Nord del Tchad, dove vengono accolti gli sfollati del Darfur. Più lo conosco e più resto ammirato di lui e della sua scelta di lavorare fra i poveri. Ha un fratello banchiere e un altro che lavora negli uffici del primo ministro, ma lui non ha perso né la sua modestia né il suo sobrio stile di vita. Vive in affitto in una “area familiare” che è condivisa da altre quattro famiglie. Due anni fa è morto uno dei suoi bambini. Esce da N’Djamena solo per lunghe soste nei campi-profughi, dove le condizioni di vita e la calura sono infernali. E’ il fratello di mezzo tra i due che sono molto meglio sistemati, ma è il punto di riferimento della famiglia, la persona che ha fatto del servizio il suo personale stile di vita. Di fatto è a lui che Alfred ha fatto ricorso per ospitarci e offrire -a me, a Fabio e a Luca- una cena sontuosa nella nostra ultima sera passata a N’Djamena. Non è detto che in questa povera e desolata capitale non si trovi di che mangiare. Il salario di Alfred e lo spirito di servizio di Théophile e della moglie ci hanno permesso di gustare il couscous con pollo e con pesce (capitaine), un’abbondante e buonissima insalata russa alla maionese, frutta e vino...

Chi dispone di mezzi ha la possibilità di soddisfare anche i desideri più raffinati, benché si trovi a Djamena.

 

Devo dire che Fabio ha avuto ragione a rifiutare ad Anega, un giovane infermiere, un passaggio di ritorno a Fianga. Fabio sa che mi trovo in disaccordo con lui quando non si ferma con la macchina a prendere chi fa autostop lungo il cammino. Eppure questa volta gli dò ragione. Anega è venuto alcune volte a N’Djamena per presentare il proprio dossier al ministero, ma ciò non giustifica il suo andirivieni da Séré a N’Djamena. La vita di città e i suoi ozi forzati sembrano attrarre lui e molti altri giovani, che comunque trovano la maniera di vivere nella capitale accasandosi presso qualche parente, che si vede costretto a provvedere a una bocca in più. Chi ha studiato vorrebbe studiare di più o quanto meno trovare un posto di lavoro che lo esoneri dalle fatiche dei campi. Anega, perciò, non ha nessuna voglia di restare nel villaggio ad aiutare i genitori e gli altri fratelli a raccogliere il miglio o a zappare la terra. Essendo poi un giovane cristiano che ha sempre collaborato con la missione, si sente quasi in diritto di domandare al prete questo e altri servizi.

Fabio, che è un intransigente uomo di principi ma anche la persona più servizievole e più accogliente della missione, ha spiegato tutto questo ad Anega e gli ha rifiutato il passaggio per il ritorno a Séré, pur avendo almeno tre posti disponibili. L’ho sentita come una decisione difficile ed esposta a molte critiche, ma legittima e motivata. Per me addirittura esemplare.

don Giuliano Vallotto