LUMINI DI NOVEMBRE

Forse è l’arrivo di novembre, con le sue nebbie e le lunghe tenebre, ad accrescere in molti di noi la malinconica consapevolezza della fragilità umana. Anche la natura si sveste, lasciando cadere fiori e foglie, evidente metafora di un ciclo che ha in sé il concetto di fine.

Si ‘festeggiano’ i morti, un’occasione per ripercorrere dolorosamente rapporti affettivi interrotti, percorsi di vita che ci hanno accompagnato per poi spegnersi, lasciandoci soli a continuare il cammino.

I cimiteri si coprono di fiori, diventano giardini meravigliosi, noi ‘vivi’ ci illudiamo di regalare a chi abbiamo amato una carezza profumata, la rassicurazione che non li abbiamo dimenticati.

Di notte, passando accanto al camposanto, si vede un dolce tremolio di luci, un piccolo firmamento di stelle che dona vita ad un luogo di immobile freddezza.

Noi, bambini di un tempo lontano, abbiamo cominciato presto a prendere confidenza con il cimitero, luogo sacro ma familiare; con i grandi si portavano i fiori e poi si tornava a mettere l’acqua fresca. Entrando si parlava sottovoce, recitando una preghiera si fissavano foto di volti spesso sbiaditi e quasi sempre sconosciuti, si imparava a leggere i loro nomi e le date scritte sulle lapidi. Quelle visite insegnavano in modo naturale a meditare sulla vita e sulla morte; uscendo ci si faceva il segno di croce e si mandava un bacio a tutti, sicuri di ricevere protezione.

Ricordo che, camminando tra le tombe di terra, ne avevo scoperto una completamente abbandonata; un povero vaso di latta  rovesciato e la ruggine che corrodeva la croce in ferro.

Nella foto c’era il volto di un giovane, i suoi occhi mi sembravano tristi, così mi ero presa a cuore quel cumulo solitario. Lo avevo quasi adottato, stabilendo con quel ragazzo sconosciuto una segreta intesa; avevo  ripulito il vasetto e ci mettevo dei fiori di campo portati di nascosto dalla mamma. Era un modo per consolarlo della sua solitudine, quando me ne andavo mi sembrava che sorridesse sotto il ciuffo biondo. Ancora bambina, avevo capito che nessuno muore veramente se c’è qualcuno che continua a ricordarlo.

Ci sono persone che faticano a stabilire un contatto con i propri defunti nel cimitero, davanti ad una tomba.

“Quando sono troppo sola e mi sento soffocare dal rimpianto, mi siedo nella sua poltrona, mi avvolgo nella sua coperta e leggo i suoi libri. E’ il mio modo per ritrovare un po’ della sua anima”, mi confida un’amica rimasta vedova da poco.

Per chi non riesce a trovare conforto nella preghiera, per mantenere vivo un rapporto interrotto può diventare importante continuare a coltivare i fiori seminati assieme, riascoltare la musica preferita, accarezzare il cane intristito dall’assenza del padrone, ma soprattutto cogliere negli occhi di un figlio o di un nipotino lo stesso sguardo tenero che oggi tanto ci manca.

Osservando la nostra società, ci accorgiamo che nei confronti della morte presenta un atteggiamento contradditorio: da una parte cerca di esorcizzarla, separandola dalla vita quotidiana, relegandola negli ospedali, nelle case di riposo, in strutture predisposte a vincere il dolore di patologie crudeli, dall’altra ne ostenta in ogni occasione immagini spietate. Televisione e cinema propongono a ripetizione morti violente, con particolari agghiaccianti, provocando una banalizzazione dell’evento, molto pericolosa soprattutto per i piccoli spettatori.

Grazie ai continui successi della medicina, è fortemente diminuita la mortalità infantile, che fino a sessant’anni fa provocava molte  vittime nelle famiglie - nei cimiteri c’era il settore dei teneri angeli, con tanti piccoli cumuli in fila, ricordate? - ed anche le grandi epidemie sono state sconfitte. Così, a differenza del passato, il veder morire in casa un proprio caro non fa più parte della nostra esperienza quotidiana: oggi è sempre più raro morire nel proprio letto, circondati dalle persone e dalle cose che ci hanno accompagnato per una vita.

Per chi sta morendo, gli ultimi istanti possono essere importantissimi: riuscire ad accomiatarsi esprimendo  anche solo con una stretta di mano o un sorriso, l’amore e la gratitudine che non sempre si è saputo dire in tanti anni passati assieme.

Questi momenti intensi possono far paura: sono molti infatti a preferire una morte improvvisa, rapida, magari nel sonno o in stato di incoscienza e sempre per timore spesso si crea una congiura del silenzio attorno al malato, che non sa neppure di dover morire: non gli si dice la verità, perché la prospettiva della morte è fonte di angoscia, ci riporta alle domande vere, quelle che abbiamo tante volte soffocato.

Sarebbe bello invece riuscire a considerare la morte come il momento culminante della nostra vita, quello che le dà senso e valore, un passaggio obbligato che ciascuno di noi dovrebbe poter vivere con serena coscienza, lasciandosi alle spalle i rimpianti terreni, senza la paura per quello che ci attende, una volta superato quel muro d’ombra misterioso e definitivo.

Lucia