DOVE FINISCONO I NOSTRI RIFIUTI ELETTRONICI
UN
RAGAZZO SPINGE LA SUA BICICLETTA DA CARICO A TRE RUOTE PER UNA VIUZZA DI OLD
SEELAMPUR, un
quartiere a nord-est di Nuova Delhi, su cui ha fissato due dozzine di computer.
Si dirige verso l'entrata di una casa, dove alcuni uomini seduti aspettano.
L'aria odora di plastica bruciata, sostanze chimiche e metallo. Uno degli uomini
allunga al giovane un altro computer, che lui prontamente accatasta sugli
altri.
Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche: qui tutti vivono della rottamazione di questo tipo di rifiuto. Nell'officina a pianterreno di una palazzina, sono ammucchiati circuiti stampati di computer accanto a file di vecchi monitor con gli schermi rivolti verso l'alto come pance di pesci morti. In fondo alla stanza, due ragazzi seduti per terra martellano gli involucri di vecchi dischi rigidi con un cacciavite piatto usato come scalpello. Finalmente l'involucro si apre e mette alla luce i dischi dati dell'hardware. Quello che però interessa ai due giovani è il piccolo magnete che si trova nell'angolo e che controlla il braccetto di lettura, perché contiene neodimio, un metallo molto richiesto, appartenente al gruppo delle terre rare.
Ogni vecchio computer rende 7 euro, una cifra per cui gli adulti mettono a repentaglio la propria salute e quella dei tanti bambini che lavorano per loro. Il martellamento solleva polveri al piombo che inalate danneggiano il cervello, mentre nel bruciare circuiti stampati e cavi si sprigionano vapori velenosi e cancerogeni. Il governo indiano, che si è nel frattempo reso conto del problema, cerca di imporre regole lavorative ed ecologiche ai commercianti di rottami, di aiutarli con corsi di aggiornamento e facendosi tramite per ordini di rottamazione "puliti".
LA CINA NON È COSÌ AVANZATA. La città di Guiyu, nella provincia di Guandong, si trova a meno di 300 chilometri a est delle metropoli di Hong Kong e Shenzhen, e ha l'aspetto di un enorme rottamaio. Le donne surriscaldano i circuiti stampati in cucine elettriche fino a quando le linee a striscia non si fondono, per staccare poi i chip dai circuiti con una tenaglia. Si sente un bebé piangere. Un paio di strade più in là, in periferia, un uomo immerge i circuiti in botti piene di acido, da cui fuoriesce un denso fumo giallo ocra. L'acido serve per staccare i metalli pregiati da quelli non pregiati. Un normale giorno lavorativo a Guiyu, anche detta la "necropoli elettronica", dove l'acqua potabile arriva su camion perché tutto è ormai avvelenato da tempo dai residui dei vapori. La cenere dei circuiti bruciati ha colorato di nero il fiume. Questo comune detiene un record triste: la massima concentrazione di diossina cancerogena al mondo. In base a una ricerca comparata eseguita da scienziati cinesi, il numero di aborti a Guiyu è 4 volte superiore a quello della città costiera di Xiamen e 7 bambini su 10 presentano un tasso eccessivo di piombo nel sangue. Le cifre sono spaventose, ma non sorprendono, poiché Guiyu è il maggior luogo di raccolta al mondo di rifiuti elettronici e punto di arrivo di televisori a tubo catodico, vecchi computer e telefonini che ogni giorno vengono buttati, soprattutto negli Usa, e spediti per nave in Cina via Hong Kong. Negli Stati Uniti lo smaltimento a norma di legge costa caro: gli addetti allo smaltimento, che di fatto vengono pagati per il riciclaggio dai produttori di apparecchiature, svendono i rottami a commercianti che li spediscono in Asia. Succede quindi che, nel sud-est della Cina, migliaia di contadini emigrino nella città morta di Guiyu, perché lì possono guadagnare di più che in campagna: sette euro al giorno. Avendo la scelta tra cadere in miseria o venire avvelenati, si decidono per la soluzione che li può aiutare al momento e che darà loro problemi solo in futuro: fare affari con il veleno.
QUESTO TIPO DI AFFARI non dovrebbe nemmeno avere luogo in base alla decisione di tante nazioni, che con la Convenzione di Basilea del 1989 hanno sottoscritto il divieto di esportare i rifiuti oltre frontiera. L’export è permesso solo per apparecchi ancora funzionanti o per quelli che possono solo essere riparati nel paese di destinazione. Qual è però la dogana che ha personale e tempo per controllare il funzionamento di montagne di apparecchi usati? Questi vengono perciò esportati, soprattutto via nave, dalle nazioni industrializzate, che spediscono gran parte dei 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettrici ed elettronici prodotti ogni anno in tutto il mondo verso paesi dove il lavoro è a basso costo o le specifiche ecologiche così deboli da rendere remunerativo staccare i metalli. Esempi? Ghana, Nigeria o Vietnam, oltre a India e Cina. I rifiuti possono naturalmente essere riciclati anche in loco e rappresentare una fonte di guadagno anche in nazioni con salari elevati, grazie a moderni impianti di riciclaggio. Con le apparecchiature scartate finiscono, infatti, materie prime preziose, come l'oro. In un chilo di telefonini smaltiti sono presenti 200 milligrammi di oro puro, una quantità 40 volte superiore a quella contenuta in un chilogrammo di minerale metallico estratto in miniera. Ogni anno finiscono quindi tra i rifiuti non solo tonnellate d'oro, ma anche di platino, argento, rame, litio, gallio, palladio, indio, cobalto, tantalio e berillio. I primi produttori in assoluto di rifiuti sono, e non meraviglia, gli Usa. Questa nazione, che fino a oggi non ha ancora ratificato la Convenzione di Basilea, esporta l'80% dei suoi 3 milioni di tonnellate di rifiuti elettrici ed elettronici all'estero. Al secondo posto nella produzione di rifiuti elettronici troviamo la Cina, seguita dall'India. Il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (Unep) prevede che in questi paesi in espansione i rifiuti elettrici ed elettronici fino al 2020 si quintuplicheranno.
BUTTARE VIA COSÌ TANTE COSE è tipico dei consumatori: il nuovo sembra migliore e più desiderabile. Un "nuovo", poi, che arriva sempre più velocemente sul mercato, perché i produttori accorciano i cicli di produzione. Ma anche gli apparecchi durano sempre meno, spesso a causa di difetti tecnici banali, come quello dell'alimentatore: secondo molti tecnici rappresenta uno dei motivi più frequenti per il guasto anzitempo dei prodotti. I televisori a tubo catodico, per esempio, rimanevano in funzione per 15 anni, mentre i televisori a schermo piatto, oggi, possono smettere di funzionare già dopo 5 anni a causa della rottura dell'alimentatore. Il dramma che segue è sempre lo stesso: o non vale la pena di ripararli perché il costo è superiore a quello di un apparecchio nuovo, o non si può fare perché i produttori non immagazzinano i pezzi di ricambio e non mettono a disposizione gli schemi elettrici.
I televisori a schermo piatto sono apparecchiature high-tech con schermi enormi, risoluzioni ad altissima definizione e, non di rado, uno splendido sound... Ma si rompono poi per un semplice commutatore di corrente elettrica. Sempre più persone sono convinte che ciò avvenga di proposito. Viene definita obsolescenza programmata la pratica di ridurre la durata degli apparecchi integrando il decadimento della funzionalità. Gli alimentatori ne sono solo un esempio, un altro possono essere le batterie ricaricabili montate fisse nei telefoni cellulari.
LA PROVA PIÙ FAMOSA DI OBSOLESCENZA programmata la si può trovare nella cittadina di Livermore, in California. Al soffitto della caserma dei vigili del fuoco di questa cittadina di 70mila abitanti è appesa una sola lampadina polverosa, che rimane accesa giorno e notte. La prima volta che è stata usata, il presidente degli Stati Uniti si chiamava ancora William McKinley: era il 1901. Da allora questa lampadina da 60 Watt di produzione Shelby Electric illumina la caserma dei vigili del fuoco. Con i suoi 113 anni di esercizio, la "Centennial Light Bulb" (la lampadina del secolo) è la lampada a incandescenza funzionante più vecchia del mondo. In tutti questi anni è stata spenta solo poche volte, per esempio quando la caserma si è trasferita. Nel 2001 si sono festeggiati i suoi 100 anni, nel 2011 i suoi 110 e per il 2021 si è già programmata la prossima festa. Quando è stata prodotta, le lampadine a incandescenza erano veramente durature... troppo secondo i produttori leader, che nel 1924 stipularono un accordo segreto: da quel momento in poi le lampadine dovevano funzionare solo per mille ore. Le aziende incaricarono i loro scienziati di non perfezionare le lampadine, ma di peggiorarle. Si riconvertì quindi il filamento incandescente in punto di rottura: il regresso tecnico doveva garantire il progresso economico. Solo nel 1941 si scoprì il patto segreto che entrò nei libri di storia con il nome di "cartello Phoebus", ma non si modificò la durata ridotta delle lampadine. Solo grazie al divieto di commercio e produzione che l'Unione Europea ha deciso per determinate luci a incandescenza il mercato inizia a muoversi, anche se lo scopo politico è l'efficienza energetica. L’obsolescenza programmata è un principio del capitalismo, che barcollò per la prima volta il 24 ottobre 1929. Wall Street a New York entrò nel panico con il crollo delle quotazioni azionarie e lo scoppio di un'enorme bolla speculativa. Il leggendario crash della Borsa fece precipitare gli Usa nella rovina economica, e con loro tutto il mondo industrializzato. La Grande Depressione tenne prigioniero il Paese per anni, nonostante l'eccezionale boom economico dei decenni precedenti dovuto all'elettrificazione e alla produzione di massa. In quegli anni erano nati i primi articoli "usa e getta": tappi a corona, fazzolettini, colletti di camicia di carta. Buttare via invece di conservare era diventato sinonimo di moderno e segno di benessere. I produttori stimolavano la tendenza al consumismo: «L'avarizia è ripugnante, accumulare cose è volgare», diceva uno slogan famoso negli anni della Prima guerra mondiale. Il filosofo francese André Gorz fece il punto su questo sviluppo: «Il consumatore è al servizio della produzione e deve garantire i mercati di sbocco da essa pretesi».
Tratto dal mensile “GEO”
Continua il mese prossimo